di Frédéric Monferrand e Vincent Chanson
Ci proponiamo qui, in quest'articolo, di instaurare un dialogo fra l'operaismo e la Teoria critica della Scuola di Francoforte, due tradizioni che hanno giocato un ruolo di primo piano nello sviluppo delle sinistre extraparlamentari tedesche ed italiane degli anni 1960, e che si sono sforzate di riattivare il senso ed il contesto del concetto di «critica» secondo il quale Marx pensava il suo rapporto con l'economia politica [*1]. La nostra proposta non apparirà meno intempestiva, per il fatto che le elaborazioni di queste due tradizioni a prima vista appaiono divergenti. Da un lato, la Teoria critica francofortese, che ha come testo fondamentale La Dialettica dell'illuminismo [*2], che cerca a tutti gli effetti di dar conto della sconfitta della sequenza rivoluzionaria post-1917, del sorgere dei fenomeni politici autoritari e fascisti, o ancora dei processi di massificazione e di integrazione che hanno caratterizzato il suo concetto di capitalismo tardivo.
Una tradizione che si trova ad essere radicata in un paradosso «inaugurale», quello di mantenere l'ispirazione emancipatrice di una riflessività critica come quella che ad esempio viene elaborata in "Teoria tradizionale e teoria critica" di Horkheimer, pur prendendo atto della fine di una speranza politica e della scomparsa del soggetto storico deputato ad assumerla [*3]. Dall'altro lato l'operaismo , che per quanto gli riguarda ha cercato di riaprire la questione dell'antagonismo storico e politico. Le mutazioni del capitalismo italiano del dopoguerra, segnate dall'afflusso nelle grandi fabbriche del Nord, allora in piena ristrutturazione fordista, di massa di una forza lavoro meridionale, richiedono, per i membri dei Quaderni Rossi, e poi di Classe Operaia, un rilancio dell'inchiesta sulla composizione di classe del proletariato. L'emergere dell'«operaio massa» non qualificato, estraneo alle tradizioni e all'identità operaia, ostile alle forme di organizzazione politica tradizionale del movimento proletario, segna l'irruzione di un nuovo tipo di soggettività antagonista, e l'inizio di un nuovo ciclo di lotta di cui l'operaismo intende costituire la teoria.
Una tradizione che si trova ad essere radicata in un paradosso «inaugurale», quello di mantenere l'ispirazione emancipatrice di una riflessività critica come quella che ad esempio viene elaborata in "Teoria tradizionale e teoria critica" di Horkheimer, pur prendendo atto della fine di una speranza politica e della scomparsa del soggetto storico deputato ad assumerla [*3]. Dall'altro lato l'operaismo , che per quanto gli riguarda ha cercato di riaprire la questione dell'antagonismo storico e politico. Le mutazioni del capitalismo italiano del dopoguerra, segnate dall'afflusso nelle grandi fabbriche del Nord, allora in piena ristrutturazione fordista, di massa di una forza lavoro meridionale, richiedono, per i membri dei Quaderni Rossi, e poi di Classe Operaia, un rilancio dell'inchiesta sulla composizione di classe del proletariato. L'emergere dell'«operaio massa» non qualificato, estraneo alle tradizioni e all'identità operaia, ostile alle forme di organizzazione politica tradizionale del movimento proletario, segna l'irruzione di un nuovo tipo di soggettività antagonista, e l'inizio di un nuovo ciclo di lotta di cui l'operaismo intende costituire la teoria.
Riflessione malinconica sulla fine della speranza inaugurata dal 1917, da un lato, tentativo di rilancio del movimento rivoluzionario dall'altro, tutto sembra quindi contrapporre la teoria critica francofortese e l'operaismo. se ne dovrebbe allora concludere che si tratta di un dialogo impossibile, accontentarsi di contrapporre pessimismo storico e teoria/pratica dell'antagonismo? Non lo crediamo affatto. Infatti, si potrebbe ricordare che un testo come "Dialettica dell'Illuminismo" ha contribuito alla formazione intellettuale di numerosi operaisti, oppure che un'opera come "Lavoro intellettuale e lavoro manuale", in cui Alfred Sohn-Rethel, uno stretto collaboratore dell'Istituto di ricerca sociale, si propone di derivare le categorie del pensiero dalle forme dello scambio di merci, è stato tradotto e pubblicato sulla rivista dell'Istituto di scienze politiche e sociali di Padova, dove Antonio Negri ed i suoi compagni hanno elaborato le ipotesi direttrici dell'autonomia operaia [*4]. Ugualmente, si potrebbe sottolineare la vicinanza di certi termini filosofici elaborati da Walter Benjamin, Theodor Adorno e Mario Tronti, fra i quali temi innanzitutto appare il rifiuto di ogni concezione progressista della storia [*5], oppure si potrebbe confrontare la pratica operaista della «inchiesta operaia» con le ricerche empiriche portate avanti dall'Istituto di ricerca sociale sugli impiegati o sulla personalità autoritaria [*6]. Ma andando più in profondità, ci sembra che l'eredità comune sia alle tradizioni operaiste che a quelle francofortesi, da un parte, e la matrice intellettuale e politica alla quale entrambe si richiamano, dall'altra, autorizzino un dialogo fra Teoria critica ed operaismo.
Queste due correnti costituiscono infatti ancora oggi le due fonti principali di quello che viene chiamato il «marxismo autonomo»: un insieme di pratiche e di strategie, di correnti e di idee che, pur essendo eterogenee, nondimeno partecipano di una medesima attenzione alle mutazioni storiche della condizione proletaria, così come della convinzione secondo la quale ogni prospettiva rivoluzionaria deve essere fondata sul riconoscimento dell'attività autonoma del proletariato, cioè a dire l'autonomia nei confronti della sua funzione di produttore di plusvalore, da un lato, e nei confronti delle organizzazioni che pretendono di rappresentarlo, dall'altro lato [*7].
Ora, come abbiamo precedentemente osservato, l'operaismo e la teoria critica forniscono delle risposte ben diverse al problema dell'autonomia politica degli oppressi. Ma tali risposte differenti, perfino opposte, sono tuttavia radicate in una matrice comune: il marxismo dell'Europa occidentale degli anni 1920, quello di Korsch-Lukacs, la cui modalità operativa centrale è stata quello di una sorta di reinvestimento speculativo del leninismo. Il nostro progetto sarà perciò quello di interrogare queste due tradizioni a partire dal loro modo di reinvestimento su quest'operazione inaugurale, e mostrare che è possibile approcciare le elaborazioni operaiste e francofortesi in quanto due sviluppi potenziali della duplice tesi elaborata da Gyorgy Lukacs nella sa opera seminale del 1923, Storia e coscienza di classe [*8].
Precisiamo: ne «La reificazione e la coscienza del proletariato», Lukacs assegna alla teoria il compito di svelare i processi economici, psicologici e politici per mezzo dei quali i rapporti sociali si presentano come una «seconda natura», altrettanto ermetica della prima natura alla volontà e all'azione umana, che tendenzialmente blocca di per sé gli operai nella passività. Ed è da questa critica della reificazione e dei suoi effetti depoliticizzanti che si svilupperà la Teoria critica. Ma Lukacs spiega anche che il proletariato, è in quanto tale, da una parte, il produttore di questo mondo, il soggetto collettivo della sua storicità, e, dall'altra parte, è la vittima dei suoi ingranaggi, l'oggetto della sua riproduzione, e rappresenta l'unica classe in grado di conoscerlo e di trasformarlo. Ed è il potenziale sovversivo di questa contraddizione immanente alla forza lavoro - principio motore dello sviluppo capitalismo, così come della sua distruzione - che da parte loro prenderanno in esame gli operaisti. L'operaismo e la Teoria critica ereditano dunque da Lukacs anche un problema, che verrà formulato nella maniera seguente: come si può criticare il processo di reificazione sotto la logica del valore di tutte le sfere della vita sociale e allo stesso tempo mantenere aperta la possibilità di un antagonismo sufficientemente potente da spezzare la riproduzione dei rapporti sociali? Reificazione ed antagonismo rappresentano quindi i due limiti concettuali che segnano la strada fra operaismo e Teoria critica che ci proponiamo di percorrere.
Cominceremo a farlo, esplorando gli sviluppi che Raniero Panzieri e Friedrich Pollock hanno impresso all'dea lukacciana di un'estensione della logica capitalista a tutta la società. In seguito, su questa base studieremo le conclusioni che Mario Tronti e Theodor Adorno hanno tratto da tale diagnosi di un divenire totalitario del capitalismo. E infine confronteremo il trattamento che il post-operaismo ha riservato ai temi della reificazione e dell'antagonismo, e alle tesi sviluppate da Hans-Jürgen Krahl in "Costituzione e Lotta di classe". Il nostro obiettivo è quindi quello di proporre alcuni percorsi di riflessione in direzione di un superamento delle aporie che oggi incontra il «marxismo autonomo».
Capitalismo di Stato e neocapitalismo: il divenire totale del capitale
L'importanza di "Storia e coscienza di classe" per il pensiero del 20° secolo risiede in gran parte nel modo in cui Lukacs sintetizza le due principali correnti che hanno misurato le trasformazioni epocali intervenute con l'industrializzazione delle società occidentali e con la costituzione degli apparati burocratici di Stato: la Kulturkritik sviluppata da Georg Simmel o da Max Weber, da una parte, e la critica sociale rappresentata dal marxismo dall'altra. Per Lukacs, infatti, il capitalismo non si caratterizza solamente per lo sfruttamento di una forza lavoro "libera", ma anche per una tendenza alla pietrificazione delle relazioni sociali, i cui effetti riflessi si esprimono finanche nel tipo di razionalità implementata nelle scienze e nella filosofia, e nel rapporto con sé stessi, con gli altri e con il mondo, così come lo intrattengono degli individui tendenzialmente ridotti allo status di puri esecutori di funzioni sociali autonomizzate. In altri termini, per Lukacs il capitalismo è irriducibile ad una forma «di economia»: esso costituisce un vero e proprio mondo storico, un sistema totale che trasforma nel profondo tutti gli aspetti dell'esistenza umana.
Questa intuizione lukacciana, secondo la quale il capitalismo dev'essere concepito come una totalità, rimane come sfondo della teoria del «capitalismo di Stato» sviluppata da Friedrich Pollock negli anni 1940. Ma contribuisce anche alla teoria del «neocapitalismo» elaborata agli inizi degli anni 1960 sulle pagine dei Quaderni Rossi da quell'eminente lettore di Lukacs e Pollock che è stato Raniero Panzieri. E, in Pollock come in Panzieri, l'idea di un divenire-totalitario del capitalismo viene diretta contro l'assioma marxista ortodosso secondo cui il capitalismo non riuscirebbe a raggiungere un punto di equilibrio se non negandosi nel socialismo.
Friedrich Pollock: statalizzazione del capitale e primato della politica
Con il concetto di «capitalismo di Stato», Pollock cerca in effetti di sistematizzare l'opinione, condivisa da numerosi rappresentanti del «marxismo occidentale» [*9], per cui l'insieme dei paesi sviluppati - che si tratti della Germania nazionalsocialista, delle democrazie occidentali o dell'Unione Sovietica - si starebbero muovendo, secondo gradi differenti, verso una forma di «capitalismo amministrato». Sebbene lo presenti come un semplice «idealtipo», in realtà il capitalismo di Stato rappresenta per Pollock una nuova fase del capitalismo, in quanto egli presuppone due condizioni storiche. Da un punto di vista tecnico, il capitalismo di Stato implica innanzitutto lo sviluppo della produzione industriale su grande scala così come l'elaborazione di strumenti di misurazione e di orientamento della domanda, che, regolando a priori la produzione ed il consumo, permettano di prevenire la possibilità stessa di crisi economiche. Da un punto di vista istituzionale, oggi, il capitalismo di Stato si caratterizza per la separazione fra proprietà del capitale e gestione d'impresa e per il concomitante trasferimento di potere dai capitalisti individuali allo Stato in quanto «capitalista collettivo». In tale prospettiva, spiega Pollock, il mercato, come forma di mediazione fra produzione e consumo caratteristica del capitalismo liberale, tende a lasciare il suo posto alla pianificazione burocratica: le merci non oggettivizzano più il tempo di lavoro socialmente necessario alla loro produzione - il lavoro astratto - ma delle esigenze politiche di controllo della popolazione, un dominio astratto [*10]. Questa diagnosi costituisce l'infrastruttura oggettiva della genealogia distopica della razionalità occidentale proposta da Adorno ed Horkheimer nella Dialettica dell'Illuminismo, dove il dominio all'opera nelle formazioni sociali del capitalismo tardivo dev'essere interpretato dal punto di vista del dominio originario della natura esterna ed interna.
Contrariamente a quel che suggerisce la lettura della Dialettica dell'Illuminismo, la pianificazione capitalista non implica tuttavia la completa integrazione del conflitto sociale, ma la sua dislocazione dalla sfera economica alla sfera politico-burocratica. Nel capitalismo di Stato, la contraddizione principale in realtà non è più quella che oppone il lavoro al capitale, ma quella che oppone lo Stato ad una società ridotta ad essere una «unità di produzione integrata, comparabile ai giganti dell'industria siderurgica, chimica o automobilistica» [*11]. Quando tutta la società si trasforma in una fabbrica organizzata dallo Stato, la lotta di classe si trasforma in un conflitto che oppone coloro che detengono i mezzi politici di coercizione a coloro che essi pretendono di governare, un conflitto la cui posta si può riassumere nel modo seguente: chi decide quali bisogni meritano di essere soddisfatti e in che modo devono esserlo?
Raniero Panzieri: neocapitalismo e centralità operaia
In "Plusvalore e Pianificazione", Panzieri segue fedelmente Pollock quando si tratta di tematizzare il divenire-pianificato di ciò che egli chiama il «neocapitalismo». La scientificazione del processo produttivo, l'importanza sempre più crescente del capitale finanziario nel ciclo di accumulazione, così come della regolazione della concorrenza attraverso la costituzione di monopoli e la concentrazione bancaria del credito, rappresentano secondo lui altrettanti fenomeni che rendono storicamente obsoleta l'opposizione fra «l'anarchia del mercato» ed il «dipostismo della fabbrica» su cui si basavano i marxismo sia della seconda che della terza Internazionale [*13].
Per Panzieri, queste trasformazioni tuttavia non annunciano l'agonia del capitalismo più di quanto non suggeriscano la sua mutazione in un modo di produzione statalizzato. Piuttosto permettono di comprendere che quel che rende singolare il capitalismo come modo di produzione coerente ed unificato non è la concorrenza, ma la pianificazione. Basandosi sulle analisi della cooperazione sviluppate nel XIV capitolo del Capitale, Panzieri sottolinea che in realtà il capitalismo diviene socialmente dominante solo quando sussume realmente un processo di produzione che ristruttura totalmente in conformità alle sue esigenze di valorizzazione: il paradosso consiste nel fatto che questo processo mistifica le specificità storiche del modo di produzione capitalista. Allorché il processo di valorizzazione assorbe il processo lavorativo, i mezzi di produzione materiale appaiono infatti «naturalmente« portatori del valore e la razionalità tecnica, così come l'organizzazione dispotica della cooperazione che riflette nel sistema delle macchine si presentano come le condizioni trans-storiche dello sviluppo delle forze produttive. In questa prospettiva, l'identificazione del socialismo con la liberazione delle forze produttive dalle catene imposte loro dai rapporti di produzione si rivela come il riflesso politico della sussunzione reale: un feticismo di secondo grado.
Ora, prosegue Panzieri, il vettore principale della sussunzione reale non è altro che la pianificazione. La pianificazione capitalista deve essere infatti concepita come l'unità immediata fra l'alienazione delle capacità cooperative dei lavoratori nel sistema delle macchine, da un lato, e, dall'altro lato, l'appropriazione di queste capacità da parte del capitalista. Così, laddove in Pollock il piano del capitale provoca una depoliticizzazione dei rapporti di produzione, al contrario, in Panzieri costituisce la forma di una lotta di classe che rivela il carattere intrinsecamente politico, vale a dire antagonista, dell'economia. Così come le diverse «inchieste operaie» condotte dal gruppo dei Quaderni Rossi tendono a mostrare, i lavoratori sono infatti portati, dalla loro esperienza quotidiana, a demistificare le forme reificate della valorizzazione capitalista e a superare le loro rivolte individuali e le loro rivendicazioni sindacali in una lotta politica per il potere.
Politica del non-identico
La teoria pollockiana del capitalismo di Stato così come l'analisi panzeriana del neocapitalismo, praticano entrambe un'apertura al problema del divenire della negatività sociale nel capitalismo amministrato. In seno a questa costellazione teorico-politica, l'intervento di Adorno si dimostra profondamente originale, in quanto consiste nel concepire la negatività in quanto tale, sotto la categoria del «non-identico», indipendentemente dalle sue incarnazioni soggettive: «In uno stato non-rinconciliato, la non-identità viene vissuta come negativa» [*14].
Theodor Adorno: mondo amministrato, astrazione reale e vita mutilata
Un certo numero di testi e di elaborazioni concettuali di Adorno in effetti richiama quest'idea pollackiana di un periodo storico caratterizzato dal dominio statale e burocratico. In «Capitalismo tardivo o società industriale?», si legge che:
«Malgrado tutte le proteste in senso opposto, malgrado la sua dinamica e malgrado la crescita della produzione, la società attuale presenta degli aspetti statici. Si rivelano nei rapporti di produzione. Questi rapporti ormai non sono più dei rapporti fondati unicamente sulla proprietà, ma anche sull'amministrazione, e comprendono, alla sommità della scala, il ruolo dello Stato in quanto capitalista globale» [*15].
Fin dalla Dialettica dell'Illuminismo, Horkheimer e Adorno difendono la tesi di una vita totalmente amministrata dal capitalismo tardivo. Una tesi che lega strettamente critica della razionalità (sia in quanto razionalità strumentale, che in quanto logica di oggettivazione e di sussunzione mutilante) e critica della forma della socializzazione capitalistica (lo scambio di merci come luogo della sintesi sociali, come modo di legame sociale che istituisce un regime del dominio per mezzo dell'astrazione-valore): «La critica della società è una critica della conoscenza e viceversa» [*16]. Si tratta quindi di mostrare che l'astrazione categoriale del discorso filosofico riflette l'astrazione che realizza il processo di scambio, in maniera tale che il dispositivo teorico adorniano/horkheimeriano riguarda unicamente il pensare l'isomorfismo fra razionalità e logica sociale dello scambio, attribuendo in tal modo tutta la sua portata filosofica all'ipotesi dell'amministrazione totale. Quel che ha luogo è un unico processo di riduzione all'equivalenza, alla quantificazione e all'oggettivazione:
«Il principio di scambio, la riduzione del lavoro umano al carattere universale astratto del tempo di lavoro medio viene originariamente correlato al principio di identificazione. È nello scambio che questo principio ha il suo modello sociale e senza tale principio non esisterebbe lo scambio. Per mezzo dello scambio, degli esseri singolari e delle prestazioni non-identiche diventano commensurabili, identiche» [*17].
Nei suoi scritti sociologici, Adorno concretizzerà questa tesi speculativa: l'industria culturale, la società dei consumi, il controllo burocratico dei movimenti di massa, l'integrazione di tutte le singolarità sotto il regime dell'astrazione della merce lo spingono verso una concezione del sociale in cui i fenomeni di standardizzazione e di omogeneizzazione passano ad essere in primo piano. Quindi il capitalismo non si caratterizza più solamente come un sistema segnato dallo sfruttamento, ma anche come una «forma di vita» svalutata e mutilata, di modo che il concetto di «mondo amministrato» dev'essere interpretato come un'attualizzazione della critica lukacciana della reificazione. In tale prospettiva, si comprende che malgrado i suoi accenti pollackiani, la nozione adorniana di «mondo amministrato» non può essere collegato semplicemente alla tesi di un primato del dominio politico. Come attesta l'estratto precedentemente citato, per Adorno in realtà si tratta di mantenere una concezione del dominio fondata sui rapporti sociali di scambio e di produzione, in maniera da fare apparire il «non-identico» come un'istanza di perturbamento della reificazione.
Ora, assumendo esplicitamente degli accenti utopici, la categoria del «non-identico» non si oppone a quella dell'antagonismo, che costituisce, in Lukacs come in Panzieri, il contrappunto della critica della reificazione. Semplicemente, in Adorno l'antagonismo rientra più in una concezione che si riferisce al paradigma micrologico, che in una problematica «strategica». Per l'autore di Minima Moralia, infatti, l'inversione della figura rivoluzionaria del produttore in quella del consumatore, e l'annidarsi in maniera sempre più profonda dell'ideologia nella psiche tendono a colmare lo scarto che una volta separava le classi, e a porre tutti gli individui atomizzati in un faccia a faccia paralizzante con la falsa totalità. Così laddove, partendo da una diagnosi analoga, Marcuse concludeva che l'esternalizzazione del conflitto sociale verso le figure controculturali della marginalità [*18], Adorno s'impegna in quel che si potrebbe chiamare una fenomenologia della vita mutilata, la cui posta è l'appropriarsi di quei rari momenti di negatività che resistono al modo di soggettivazione capitalistica (come l'opera d'arte autonoma o ciò che chiama «Utopia della conoscenza», intesa come una forma di messianismi «critico-epistemologico». Paradossalmente, le reticenze del filosofo francofortese ad interpretare i diversi avvenimenti e sconvolgimenti dei suoi tempi - le rivolte studentesche, la controcultura, le lotte antimperialiste e femministe - come eventi rivelanti una congiuntura rivoluzionaria, lo impongono come un marxista coerente: se è vero che il capitalismo tardivo ha finito per totalizzare e mutilare l'esperienza, nessuna prassi può pretendere un'esteriorità emancipatrice. Attraverso il suo rifiuto dell'attivismo, Adorno ci pone di fronte ad un problema che a voler credere a Hans-Jürgen Krahl, l'esperienza traumatica del fascismo gli impediva di affrontare [*19]: «come può una società capitalista entrare in contraddizione con il processo di produzione del capitale?» [*20].
Mario Tronti: totalità capitalista e parzialità operaia
È esattamente questo il problema sollevato da Tronti in "Operai e Capitale", pubblicato nella stessa epoca di "Dialettica negativa", il 1966, in cui riformula la descrizione panzeriana del neocapitalismo in maniera quasi adorniana [*21]. È vero, spiega infatti Tronti, che l'esperienza sociale è d'ora in avanti determinata integralmente dalle mediazioni attraverso le quali il capitale sociale si riproduce come totalità. Per il filosofo italiano, «il sociale» non è infatti l'opposto dell'«economico». «Il sociale», è ciò che materializza il capitale costante (le infrastrutture, il tessuto urbano, i mezzi di trasporto e di comunicazione) e che unifica il ciclo di accumulazione capitalista: la distribuzione collega tutti gli individui realizzando il valore delle merci che essi scambiano, il consumo e le interazioni quotidiane in seno alla famiglia, nella scuola o nella sfera del tempo libero, socializzando e riproducendo la forza lavoro. Dunque, d'ora in poi la società oggettivizza il capitale sociale:
«Al livello più elevato di sviluppo capitalista il rapporto sociale diventa un momento del rapporto produttivo, e la società tutta intera diventa un'articolazione della produzione, vale a dire che tutta la società vive in funzione della fabbrica, e la fabbrica estende il suo dominio esclusivo su tutta la società» [*22].
Questo «divenire organico» fra «rapporti capitalisti di produzione e società borghese» [*23] spinge alla politicizzazione di alcuni argomenti presentati da Adorno. Come sottolineato da quest'ultimo, l'oggettivazione capitalista del sociale implica una tale socializzazione del capitale che questo tende ad identificarsi nella società «in generale» e quindi a sparire come modo di produzione storicamente determinato. Ma questo processo di feticizzazione dei rapporti sociali contiene un momento di verità: nella misura in cui, nel corso della loro vita sociale, gli operai fanno esperienza della loro riduzione allo status di capitale variabile, essi divengono totalmente estranei alla società così come a loro stessi in quanto portatori di forza lavoro. In questa prospettiva, l'integrazione del proletariato nel capitale non potrebbe essere concepita unilateralmente come una riduzione degli operai all'impotenza. Ma essa implica altresì un'esposizione crescente del capitale alle diverse forme di rifiuto del lavoro messe in atto dalla classe operaia (organizzazione politica, sabotaggio, assenteismo, illegalismo), alle diverse pratiche sovversive per mezzo delle quali i proletari si negano come merci produttive. In altri termini, la critica francofortese del consumo di massa, dell'industria culturale e dei loro conseguenti effetti dev'essere completata per mezzo di un'analisi della composizione dell'operaio massa e del suo potenziale antagonistico, in quanto «all'interno della classe, solamente l'operaio "alienato" è veramente rivoluzionario» [*24].
Da un punto di vista adorniano, va tuttavia riconosciuto che allorché l'universale si realizza sotto la forma del dominio totale del valore, l'identificazione del proletariato con una «classe universale», proposta da Lukacs sulle orme del giovane Marx, perde qualsiasi pertinenza critica. È proprio questa la ragione per cui Tronti sostiene che il proletariato non è rivoluzionario quando si concepisce ed agisce come il portatore di un qualsivoglia interesse generale contro gli interessi privati dei capitalisti, ma lo è quando al contrario rivendica la sua particolarità, o meglio, la sua parzialità, di fronte alla società del capitale. Organizzare il rifiuto operaio del lavoro, significa quindi intensificare l'auto-negazione del proletariato in quanto forza lavoro. E questa auto-negazione è allo stesso tempo un movimento di auto-affermazione della sua non-identità con l'oggettivazione capitalistica della totalità sociale. È allora, e solo allora, che la vita mutilata può essere ricomposta in classe antagonista.
Oltre il post-operaismo?
Da Lukacs a Tronti passando per Pollock ed Adorno si dispiega la tesi secondo la quale «più la produzione capitalista si sviluppa, più la forma capitalista della produzione si impadronisce di tutte le altre sfere della società, invadendo completamente la rete dei rapporti sociali» [*25]. Ora, questa tesi può essere sviluppata in due direzioni.
Si può innanzitutto prendere alla lettera l'analogia fra la fabbrica e la società ("la fabbrica sociale"), estendere la categoria marxiana del «lavoro produttivo» a tutte le pratiche sociali e di conseguenza sussumere gli strati sociali più eterogenei sotto il concetto di «classe operaia». È la soluzione adottata dall'autonomia operaia negli anni 1970 e successivamente sviluppata dal post-operaismo. Ma si può anche sforzarsi di studiale le differenti frammentazioni che si sono prodotte in seno al proletariato a causa dell'estensione della «forma capitalista della produzione» alla «rete dei rapporti sociali». Questa è la pista esplorata da Hans-Jürgen Krahl in "Costituzione e Lotta di classe", che riteniamo che oggi debba essere riesplorata.
Antonio Negri: fabbrica sociale e «General Intellect»
La produzione intellettuale di Antonio Negri durante il periodo che separa la fondazione di Potere Operaio (1969) dalla sua dissoluzione nella nebulosa dell'autonomia (1974) si dispiega principalmente in due direzioni: l'identificazione delle correlazioni fra le trasformazioni istituzionali dello Stato e le ristrutturazioni del modo di produzione capitalista, da una parte, e l'identificazione del soggetto antagonista contemporaneo di queste trasformazioni, dall'altra. Per quanto concerne il primo punto, Negri diagnostica una crescente integrazione delle imprese multinazionali e degli Stati, che trasforma questi ultimi in semplici cinghie di trasmissione nazionale di una sovranità capitalista globale, cioè a dire in semplici interfacce necessarie al mantenimento arbitrario e puramente politico del «comando« esercitato dalla legge del valore sul lavoro vivente. Si trae dalla lettura di testi come "Crisi dello Stato-piano" o "Proletari e Stato" l'immagine pollockiana di un capitalista collettivo che sfrutta in maniera dispotica una società trasformata in una vasta fabbrica.
All'«infiltrazione» dell'«azione delle multinazionali» «nello Stato nazionale» [*26] corrisponde infatti secondo Negri una ristrutturazione del modo di produzione che non descrive ancora come «post-fordista», ma che definisce già a parte dall'esternalizzazione della produzione, la potenzializzazione dei servizi e delle telecomunicazioni nell'economia e la flessibilizzazione della forza lavoro - tutti fenomeni che portano alla disseminazione della cooperazione, una volta concentrata nella fabbrica, sull'insieme del territorio. Ora, conclude Negri, questa «unificazione produttiva del sociale» [*27] provoca l'emergere di una nuova figura della «composizione di classe» che riunisce tanto lo scienziato dipendente dalla fabbrica petrolchimica di Porto Marghera quanto l'operaio arruolato di recente alla catena di montaggio della Fiat per rimpiazzare i vecchi operai diventati piccoli imprenditori o lavoratori a domicilio, quanto il giovane disoccupato, lo studente precario, il laureato, fino ai diversi attori dei movimenti controculturali: «l'operaio sociale» [*28].
Sembra così che tutte le ipotesi direttrici del post-operaismo siano virtualmente contenute nei testi redatti da Negri negli anni 1970. Certamente, «l'Impero» e la «moltitudine» hanno sostituito «lo Stato-impresa» e «l'operaio sociale», ma è una diagnosi comune quella che lega le elaborazioni contemporanee di Antonio Negri e dei suoi compagni ai testi programmatici di Potere Operai: la produttività sociale ha superato il livello di intensità in grado di contenere il comando della legge del valore, la quale sopravvive solamente come forma parassitaria del controllo politico. Come spiega Carlo Vercellone, saremmo così passati ad un nuova fase del capitalismo - il «capitalismo cognitivo» - caratterizzato dall'egemonia tendenziale del lavoro immateriale nel processo di valorizzazione del capitale. Per «lavoro immateriale», qui si devono intendere delle attività che, quale che sia il ramo della divisione sociale del lavoro in cui avvengono, mobilitano un sapere generale accumulato attraverso e nella totalità della società (il «General Intellect»). In questo nuovo capitalismo, il valore accumulato quindi oggettiverebbe più la qualità delle conoscenze investite dai lavoratori nel processo di produzione, che la quantità di lavoro speso durante un tempo chiaramente misurabile. E nella misura in cui l'acquisizione di queste conoscenze dipende dall'insieme delle relazioni che legano gli individui nel corso della loro vita sociale, il capitale tenderebbe a ritrarsi dalla produzione per accontentarsi di privatizzare, sotto forma di brevetti, di affitti, o di azioni finanziarie, il prodotto collettivo della cooperazione [*29].
Malgrado la sua innegabile ricchezza teorica e politica, si possono rivolgere più critiche a questa definizione del capitalismo contemporaneo. Dal punto di vista di una critica dell'economia politica, essa tende a presentare il capitale non più come un rapporto sociale, in virtù del quale l'attività dei lavoratori è strutturata da e per l'estrazione del profitto, bensì come uno strumento di controllo esercitato dall'esterno su un processo sociale di produzione tendenzialmente autonomo. Dal punto di vista di una critica politica dell'economia, questa concezione del capitale porta di conseguenza i cognitivisti ad identificare lo sviluppo delle forze produttive in una tendenza all'abolizione del capitalismo e a rinnovare in tal modo un certo determinismo tecnologico, cui tuttavia Panzieri si opponeva.
Infine, come sottolineato già da Sergio Bologna ne «La tribù delle talpe» [*30], l'omogeneizzazione dei processi di lavoro differenziati che sussume il capitale sotto le figure dell'«operaio sociale» o della «moltitudine» si può rivelare come un ostacolo all'identificazione ed al superamento delle diverse separazioni che frazionano il proletariato. In effetti, nella misura in cui la divisione internazionale del lavoro che articola imprese high-tech e sfruttamento manchesteriano, neo-schiavitù e sistema salariale flessibile si riflette all'interno di ciascuna formazione sociale, e contrappone i lavoratori in funzione dei loro redditi, delle loro qualifiche, del loro accesso all'occupazione, delle loro identità di genere e di razza. Per comprendere teoricamente e superare praticamente questi fattori di separazione, dobbiamo quindi svolgere un'analisi differenziate della sussunzione reale del sociale sotto il capitale. Ed è a questo tipo di analisi che le riflessioni elaborate da Hans-Jürgen Krahl sembrano poter contribuire.
Hans-Jürgen Krahl: dialettica e organizzazione
Figura emblematica della nuova sinistra studentesca della Germania Ovest e «celebre» allievo di Adorno, Krahl ha infatti tentato di elaborare un concetto differenziato della costituzione del capitale come totalità sociale. Leader e principale teorico del SDS (Sozialistischer Deutscher Studentenbund), è stato in grado di stabilire un dialogo critico con Adorno e con il paradigma «francofortese» che culmina nel suo unico libro pubblicato postumo (che consiste di una raccolta di articoli), rapidamente tradotto in italiano e che gioca un ruolo centrale nello sviluppo dell'Autonomia: Costituzione e Lotta di Classe. Le riflessioni eterogenee raccolte in questo libro dimostrano che la concezione adorniana del negativo in quanto non-identico, o quella trontiana di una localizzazione dell'antagonismo strettamente limitata alla sfera della fabbrica, si rivelano come due opzioni politiche troppo unilaterali. A questi due «riduzionismi», Krahl intende opporre una rivalutazione del potenziale antagonista del lavoro così come si esprime nelle diverse istanze della totalità sociale. Una prospettiva che secondo noi lo colloca in un punto singolare di articolazione di queste due tradizioni, ossia la Teoria critica e l'Operaismo.
Interessato a pensare e ad organizzare le lotte studentesche che attraversano lo spazio della metropoli, Krahl pone una domanda che ci sembra decisiva: si può comprendere la forma della coscienza anti-autoritaria che emerge in quest'epoca come una forma della coscienza di classe? [*31] La risposta che propone, quasi operaista nel suo metodi in quanto consiste nel pensare il capitalismo tardivo dal punto di vista delle nuove forme di radicalità che esso genera, si articola in tre momenti [*32]. Krahl spiega innanzitutto che il movimento studentesco corrisponde all'emergere della figura del lavoratore collettivo sulla scena politica. Se è cosi, precisa subito dopo, questo lavoratore collettivo è la forma della soggettività che ha comportato l'integrazione del lavoro intellettuale (sia che avvenga nella ricerca scientifica, che nella formazione universitaria) nel processo di riproduzione del capitale. Ed è proprio questa integrazione dell'intelletto nella produzione, sostiene alla fine, che spiega il fatto che il movimento studentesco possa essere interpretato come una forma di espressione della dialettica della reificazione e dell'auto-realizzazione propria al «duplice carattere del lavoro» (lavoro concreto e lavoro astratto) identificato da Marx [*33].
Pur se Krahl concorda con i teorici post-operaisti nel diagnosticare una sussunzione crescente della conoscenza sotto il capitale, tuttavia se ne distingue in quanto tale processo per lui non rimanda né ad una logica di omogeneizzazione di tutte le sfere della totalità sociale, né ad una universalizzazione dell'esperienza e della soggettività proletaria, ma piuttosto ad una diversificazione delle forme sotto le quali si manifesta la contraddizione capitale/lavoro. Per l'autore di Costituzione e lotta di classe, in realtà, questa contraddizione non esiste in nessun altro posto se non nei diversi conflitti cui dà luogo e quindi le lotte operaie sono solo un'espressione, per niente privilegiata, accanto alle lotte studentesche e femministe. Quindi, nella misura in cui il «lavoratore collettivo» non è affatto un Soggetto univoco, ma un insieme contraddittorio di soggettività, le elaborazioni di Krahl aprono su un problema strategico che continua ad essere il nostro: come far convergere le differenti lotte sociali sulla base della loro rispettiva autonomia? L'assunzione di responsabilità collettiva di questo problema è indubbiamente un compito che riguarda tutti quelli e quelle che intendono mantenere vive queste due tradizioni, l'operaismo e la teoria critica.
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La nostra traiettoria in seno alle costellazioni operaiste e francofortesi ci ha permesso di sottolineare in un unico movimento sia quello che entrambi sembrano possedere di irriducibile, sia quello che essi potevano condividere in quanto opzioni teoriche fondamentali: dal marxismo lukacciano come matrice inaugurale, derivano due modalità di riflessività teorico-pratiche alternative - «fenomenologia« della vita mutilata contro intervento strategico nella lotta di classe - che tuttavia condividono una diagnosi storica convergente. Da Pollock a Panzieri, da Tronti ad Adorno, in realtà è l'ipotesi di un divenire-totalità del capitalismo tardivo quella che si è imposta come figura strutturante, dalla quale hanno potuto essere derivatele due opzioni menzionate al momento. Ma soprattutto, è sul piano della loro duplice continuità che le due tradizioni ci appaiono dover essere oggi reinterrogate in ciò che possono ancora avere in comune e di irriducibile. Il post-operaismo e i suoi concetti di fabbrica sociale e di General Intellect, Hans-Jürgen Krahl e la sua concezione di un neocapitalismo che dispiega la sua logica sotto delle istanze differenziate: due «proposizioni» che mostrano, ciascuna alla loro maniera, che la tesi di un capitalismo compreso come forma sociale totale rimane uno dei postulati maggiori della critica marxiana dell'economia politica.
Note:
[*1] - Si ringrazia vivamente Alexis Cukier, che ha partecipato alla redazione di una prima versione di questo articolo letto al 10° seminario «Materialismo Storico» a Londra nel novembre 2013.
[*2] - Theodor W. Adorno et Max Horkheimer, La dialectique de la raison. Fragments philosophiques, trad. É. Kaufholz, Paris, Gallimard, 1974.
[*3] - Max Horkheimer, Théorie traditionnelle et théorie critique, trad. C. Maillard et S. Muller, Paris, Gallimard, 1974.
[*4] - Per questa informazioni, ringraziamo Antonio Negri. Una traduzione parziale del libro di Sohm-Rethel è stata pubblicata in francese col titolo La pensée-marchandise, trad. G Briche et L. Mercier, Broissieux, éditions du Croquant, 2010.
[*5] - Vedi Walter Benjamin, « Sur le concept d’histoire » in Œuvres, III, trad. M. Gandillac, R. Rochlitz et P. Rusch, Paris, Gallimard, 2000.
[*6] - Vedi il contributo di Adorno a questa ricerca in Theodor W. Adorno, Études sur la personnalité autoritaire, trad. H. Frappat, Paris, Allia, 2007 e Siegried Kracauer, Les employés. Aperçus de l’Allemagne nouvelle, trad. C. Orsoni, Paris, Les belles lettres, 2012.
[*7] - Per la presentazione del «marxismo autonomo», vedi la prefazione di Harry Cleaver, Reading ‘‘Capital’’ politically, Brighton, The Harvest Press, 1979, così come i tre volumi di Werner Bonefeld, Richard Gunn, John Holloway, et Kosmas Psychopedis (dir.), Open Marxism, Londres, Ann Harbor, Pluto Press, 1992-1995. In francese, principalmente la rivista Futur Antérieur diretta da Antonio Negri e Jean-Marie Vincent ad aver incarnato il «marxismo autonomo».
[*8] - Georg Lukács, Histoire et conscience de classe. Essais de dialectique marxiste, trad. K. Axelos et J. Bois, Paris, Éditions de minuit, 1960. L'ipotesi di una matrice lukacciana comune all'operaismo e alla Teoria critica è stata sviluppata con brio da Andrea Cavazzini in Enquête ouvrière et théorie critique. Enjeux et figures de la centralité ouvrière dans l’Italie des années 1960, Liège, Presses universitaires de Liège, 2013.
[*9] - Su questo punto, vedi Marcel van der Linden, Western Marxism and the Soviet Union, trad. J. Bendien, Chicago, Haymarket, 2009.
[*10] - Friedrich Pollock, ‘‘State Capitalism : its Possibilities and Limitations’’ in Andrew Arato et Eike Gebhardt (dir.), The Essential Frankfurt School Reader, Continuum, New York, 1990, p. 71-94.
[*11] - Ivi, p.77.
[*12] - Raniero Panzeri, « Plus-value et planification : Notes de lecture en marges du Capital », in « Quaderni Rossi ». Luttes ouvrières et capitalisme d’aujourd’hui, trad. N. Rouzet, Paris, Maspero, 1968, p. 81-108.
[*13] - «Nel sistema di fabbrica, l'anarchia della produzione capitalista si trova solo nell'insubordinazione della classe operaia, nel suo rifiuto della "razionalità dispotica"» Ivi, p.93.
[*14] - Theodor W. Adorno, Dialectique négative, trad. collège international de philosophie, Paris, Payot & Rivages, 2001, p. 44.
[*15] - Theodor W. Adorno, « Capitalisme tardif ou société industrielle ? » in Société, intégration, désintégration. Écrits sociologiques, trad. P. Arnoux, J. Christ, G. Felten et F. Nicodème, Paris, Payot, 2011, p. 95.
[*16] - Theodor W. Adorno, « Épilégomènes dialectiques. Sujet et objet », in Modèles critiques, trad. M. Jimenez et E. Kaufholz, Paris, Payot, p.308.
[*17] - Theodor W. Adorno, Dialectique négative, op. cit., p. 181.
[*18] - Vedi soprattutto Herbert Marcuse, L’homme unidimensionnel. Essai sur l’idéologie de la société avancée, trad. M. Wittig, Paris, Les éditions de minuit, 1968 et Contre-révolution et révolte, trad. D. Coste, Paris, éditions du Seuil, 1973. L'opera di Marcuse meriterebbe sicuramente un maggior sviluppo, ma, a dire di Antonio Negri nel corso di una conversazione con gli autori, essa gioca un ruolo subordinato, soprattutto in rapporto a quella di Adorno ed Horkheimer, nello sviluppo dell'operaismo.
[*19] - Vedi Hans-Jürgen Krahl, „Der politische Widerspruch der kritischen Theorie Adornos” in Konstitution und Klassenkampf. Zur historischen Dialektik von bürgerlichen Emanzipation und proletarischer Revolution. Schriften, Reden und Entwürfe aus den Jahren 1966-1970, Francfort, Verlag Neue Kritik, 2008, p. 291-294.
[*20] - Mario Tronti, Ouvriers et Capital, trad. Y. Moulier Boutang, Genève, Entremonde, 2016, p. 106.
[*21] - Il raffronto fra Tronti ed Adorno è già stato tentato da John Holloway in « Why Adorno ? » in John Holloway, Fernando Matamoros et Sergio Tischler (dir.), Negativity and Revolution : Adorno and Political Activism, Londres, Pluto Press, 1988, p. 14-17.
[*22] - Ivi, p.70.
[*23] - Ivi.
[*24] - Ivi, p.110.
[*25] - Ivi, p.47.
[*26] - L'azione delle multinazionali si infiltra nello Stato nazionale che innervano oggettivamente [...] i componenti della sovranità, elevando e dislocando i punti di riferimento dell'azione statale così come le sue fonti di legittimazione». Antonio Negri, « Prolétaires et État », in La classe ouvrière contre l’État, trad. P. Rival et Y. Moulier, Paris, Galilée, 1978, p. 251-252.
[*27] - Ivi, p.254.
[*28] - Ivi, p.226.
[*29] - Vedi Carlo Vercellone, « From the Mass-Worker To Cognitive Labour : Historical and Theoretical Considerations » in Marcel Van der Linden, Karl-Heinz Roth et Max Henninger (dir.), Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations of the Twenty-First Century, Chicago, Haymarket, 2014.
[*30] - Vedi Sergio Bologna, La tribù delle talpe, Milano, Feltrinelli, 1978.
[*31] - Hans-Jürgen Krahl, „Zur Dialektik des antiautoritären Bewusstseins“ in Konstitution und Klassenkampf, op. cit., p. 309-316.
[*32] - Hans-Jürgen Krahl, „Thesen zum allgemeinen Verhältnis von wissenschaftlicher Intelligenz und proletarische Klassenbewusstsein“ in Ibid, p. 336-353.
[*33] - Vedi su quest'ultimo punto Hans-Jürgen Krahl, „Zur Wesenslogik der Marxschen Warenanalyse”, in Ibid., p. 31-83.
Articolo pubblicato su Période il 12 dicembre 2016
Fonte: blackblog francosenia
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