di Alessandro Somma
Alla fine è successo quello che più o meno timidamente in molti avevano preannunciato. La Corte costituzionale ha bocciato il referendum sull’art. 18, proposto dalla Cgil per ripristinare le tutele previste prima del Jobs Act e della legge Fornero: quando il lavoratore ingiustamente licenziato doveva essere riassunto, e il datore di lavoro non poteva cavarsela pagando un indennizzo più o meno contenuto. Da più parti si è detto che si è trattato di una sentenza politica ma non è questo il punto. Valutare se una legge è compatibile con i principi costituzionali è un atto squisitamente politico, e tale sarebbe stato anche ove si fosse ammesso il referendum.
Il punto è capire quale politica esprimono ora i valori costituzionali e i loro interpreti più autorevoli, dal momento che la Carta fondamentale, che pure è stata appena salvata dallo sfregio rappresentato dalla riforma voluta da Renzi, non è più quella dei Padri costituenti: non è più la più bella del mondo.
Il punto è capire quale politica esprimono ora i valori costituzionali e i loro interpreti più autorevoli, dal momento che la Carta fondamentale, che pure è stata appena salvata dallo sfregio rappresentato dalla riforma voluta da Renzi, non è più quella dei Padri costituenti: non è più la più bella del mondo.
Con l’introduzione del principio per cui il bilancio dello Stato deve tendere verso il pareggio, infatti, si sono di fatto vietate le politiche redistributive incentrate sulla spesa pubblica: le politiche che nel tempo hanno consentito di attuare i diritti sociali. La libera circolazione dei capitali, voluta da Bruxelles esattamente come il pareggio di bilancio, ha fatto il resto: se i capitali circolano senza ostacoli, vanno solo là dove sono bassi i salari e le tasse. Neppure la leva fiscale può dunque essere utilizzata per redistribuire ricchezza dall’alto verso il basso e perseguire così l’uguaglianza e la giustizia sociale. Resta possibile la sola redistribuzione dal basso verso l’alto, quella che riguarda le somme utili a salvare le banche vicine al potere politico, da ultimo i 20 miliardi necessari a risanare Monte dei Paschi.
Insomma, dopo anni di liberismo imposto dall’appartenenza europea, o con la scusa dell’appartenenza europea, siamo a finalmente giunti a vanificare il primo articolo della Costituzione: quello per cui l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, che dunque deve esserci, ma anche e soprattutto essere assistito da diritti e da salari. Solo così il lavoro è veicolo di cittadinanza, capace di assicurare a sé e alla famiglia, come dice la Costituzione, un'esistenza libera e dignitosa.
Indubbiamente la sentenza della Corte costituzionale sull’art. 18 contribuisce non poco ad affossare i valori fondativi della Carta fondamentale. Certo, ci sono appigli di ordine tecnico per dire che è fondata, che non si tratta di un mostro giuridico, ma la stessa cosa si poteva a maggior ragione dire se il referendum fosse stato ammesso. Ci muoviamo del resto nel campo della politica, dove tutte le opzioni sono aperte e legittime dal punto di vista formale, ma solo una emerge per effetto dei rapporti di forze e del conflitto cui esse hanno dato vita: le democrazie di questo vivono, e non certo del mantra liberista per cui non ci sono alternative allo stato di cose.
Da questo punto di vista, però, la Corte costituzionale non ha portato solo brutte notizie. Ha ammesso gli altri referendum proposti dalla Cgil: quello per abolire i cosiddetti voucher o buoni lavoro, e quello per ripristinare la responsabilità solidale delle società appaltatrice e appaltante nei confronti dei lavoratori. Si tratta di referendum su temi privi della forza simbolica tradizionalmente attribuita all’art. 18 e alla sua difesa, il cui significato non è però meno sentito. In particolare i voucher sono divenuti l’incarnazione del lavoro ridotto a variabile dipendente dalle caratteristiche e necessità del processo produttivo: i lavoratori retribuiti con i voucher sono lavoratori alla spina, da assumere quando servono e licenziare subito dopo, a cui non riconoscere dignità e diritti, a cui destinare salari da fame.
Una campagna sui referendum sopravvissuti può insomma assumere significati simbolici che vanno oltre gli specifici quesiti. Può far parlare di lavoro, ma anche di Stato sociale, sempre più privatizzato attraverso forme di assistenza e previdenza integrative, magari combinate con alchimie come il welfare aziendale. Può rimettere in discussione il primato dell’economia sulla politica, o il primato di una politica che scimmiotta l’economia. E può farci finalmente uscire dalle sterili disquisizioni seguite all’esito del referendum costituzionale circa le alternative al renzismo: le possibili alleanze future, il DNA politico dei Cinque stelle, le prospettive dei partitini alla sinistra del Pd, il futuro della minoranza Pd, il ruolo della società civile e altre amenità.
Insomma, abbiamo di fronte a noi una campagna referendaria sul tema dei temi: il lavoro. E l’occasione per selezionare i compagni di strada per una sinistra che voglia ripartire dal lavoro, senza ambiguità, prime fra tutte quelle che affliggono anche il sindacato che ha raccolto le firme sui quesiti referendari.
Fonte: MicroMega online
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