di Thomas Fazi
L’ISTAT ha recentemente certificato che il 2016 è stato per l’Italia il primo anno di deflazione dal 1959. Nell’anno appena terminato, i prezzi hanno registrato una variazione negativa dello 0,1 per centro rispetto al 2015. Era dal 1959, quando la flessione fu dello 0,4 per cento, che non accadeva. Ciò che a prima vista potrebbe apparire come una manna dal cielo in tempo di crisi – beni e servizi a prezzi più accessibili, ottimo no? – è invece la cartina di tornasole della crisi profondissima in cui versa il nostro paese, quella che il governatore della Banca d’Italia ha recentemente definito «la recessione più profonda e duratura nella storia d’Italia».
La deflazione – con la quale s’intende una caduta generalizzata dei prezzi – è causata dal crollo della domanda aggregata e in particolar modo dei consumi, che infatti in Italia sono tornati ai livelli di trent’anni fa. A questo le imprese reagiscono riducendo il personale e tagliando i salari nonché, appunto, i prezzi. Il che, ovviamente, non fa che deprimere ulteriormente la domanda. E così via, in una spirale distruttiva da cui, una volta entrati, è molto difficile uscire.
Quali siano le conseguenze sull’economia reale lo ha spiegato bene Giovanni Vecchi, professore di economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, sulle colonne di Repubblica: «Aumentano le diseguaglianze sociali e viene penalizzato chi è indebitato, che sia una famiglia o un’impresa. L’economia così invece di crescere va indietro. E sono i più poveri e quelli che vivono di lavoro a pagare il prezzo più alto».
Come nota Vecchi, la deflazione ha un effetto collaterale potenzialmente catastrofico: in uno scenario deflazionistico diventa sempre più difficile per le famiglie e le imprese far fronte ai debiti, perché i prezzi e i redditi calano ma il valore nominale del debito rimane inalterato (e dunque il suo valore reale aumenta). Questo – sommato alle imprese che sono costrette a chiudere: in Italia sono più di 100mila le imprese che sono fallite dall’inizio della crisi – fa ovviamente lievitare le sofferenze bancarie, ossia i crediti erogati a soggetti che sono poi diventati insolventi (o inesistenti), mettendo in crisi il settore bancario. L’Italia è una caso esemplare: l’ammontare delle sofferenze bancarie italiane è oggi pari all’incredibile somma di 360 miliardi di euro circa. Tra gli istituti più colpiti figurano, com’è noto, il Monte dei Paschi di Siena e altre banche “storiche”, per tenere a galla le quali il governo ha recentemente stanziato – in un’operazione tutt’altro che limpida – ben 20 miliardi di euro.
Nota infine Guglielmo Forges Davanzati che «il principale effetto generato dalla caduta dei prezzi consiste nel ridistribuire reddito a beneficio dei percettori di rendite finanziarie (in quanto creditori) e di imprese esportatrici, dal momento che queste possono avvantaggiarsi della deflazione per recuperare quote di mercato nel commercio internazionale».
Tutto questo, come abbiamo detto, ha origine nel crollo della domanda interna verificatosi in Italia negli ultimi anni. E non poteva essere altrimenti, dopo sei anni di austerità fiscale (riduzione della domanda pubblica), svalutazione interna (riduzione dei salari e dunque della domanda privata) e “riforme strutturali” in salsa europea (riduzione delle tutele dei lavoratori, vedasi Jobs Act e affini), e più in generale dopo vent’anni di “convergenza” verso i criteri (intrinsecamente deflattivi) di Maastricht[1].
Che queste politiche avrebbero determinato una depressione della domanda aggregata (e dunque dell’inflazione, con pesanti ricadute sull’economia nel suo complesso) era ovvio, giacché la riduzione della domanda – al fine, seconda la narrazione ufficiale, di cui ci permettiamo di dubitare, di ridurre il disavanzo di partite correnti dei paesi della periferia e rendere queste economie più competitive – era (ed è) precisamente lo scopo di queste politiche. Come dichiarò Mario Monti in un’intervista alla CNN: «Stiamo effettivamente distruggendo la domanda interna attraverso il consolidamento fiscale».
Non si è trattato di un errore di percorso, insomma, ma di una strategia deliberata. Non a caso l’economista britannico Mark Blyth definisce l’austerità fiscale e salariale una forma di «deflazione volontaria» (“svalutazione interna” e “deflazione interna” sono infatti sinonimi). Allo stesso modo, era altrettanto ovvio che la politica di quantitative easing della BCE non avrebbe avuto pressoché alcun impatto sull’economia reale e di certo non sarebbe riuscita a compensare gli effetti depressivi delle politiche di austerità.
Basta dare una rapida scorsa all’evoluzione delle retribuzioni in Europa negli ultimi anni per rendersi conto degli effetti drammatici di questa “cura letale”. Secondo dati dell’OCSE elaborati da Jan Zilinsky, tra il 2007 e il 2014 il reddito da lavoro (e dunque il potere d’acquisto) del lavoratore medio è diminuito del 50 per cento in Grecia, del 30 per cento in Spagna, del 19 per cento in Portogallo e del 14 per cento in Italia. Per i lavoratori a basso reddito le cose sono andate ancora peggio: -70 per cento in Grecia e Spagna, -60 per cento in Portogallo, -35 per cento in Italia. E poi ci si sorprende che l’inflazione cali, fino a lasciare il posto alla deflazione?
Fonte: http://www.janzilinsky.com/an-unequal-recovery/
Fanno dunque sorridere – per non dire altro – le lacrime di coccodrillo di quei commentatori che hanno taciuto sulle politiche messe in campo negli ultimi anni (quando non le hanno entusiasticamente sostenute) e ora chiedono al governo di «intervenire» per combattere la deflazione, come se questa fosse l’effetto di una calamità naturale o al massimo dell’“inazione” del governo, e non il risultato di politiche che avevano come obiettivo esattamente quello di ottenere la deflazione (interna) attraverso la svalutazione salariale. Obiettivo che possiamo considerare pienamente centrato e di cui il governo sembra andare alquanto fiero, tanto che una recente brochure del Ministero dello Sviluppo Economico invitava gli stranieri a investire in Italia proprio in virtù degli stipendi più bassi della media europea.
Che sia chiaro: le cosiddette riforme strutturali, rivolte soprattutto all’eliminazione delle “rigidità del mercato del lavoro” e alla riduzione della contrattazione collettiva – di cui le manifestazioni più lampanti in Italia sono stati il Jobs Act e l’abolizione dell’articolo 18 – sono parte integrante di questa strategia di svalutazione interna. È fin troppo evidente, infatti, che una maggiore flessibilità e precarizzazione del lavoro – che favorisce contratti precari, riduce le tutele sul lavoro e facilita i licenziamenti – permette alle aziende di esercitare una maggiore pressione al ribasso sui salari, deprimendo ulteriormente la domanda[2]. Persino un osservatore solitamente pacato come Gad Lerner al tempo della discussione intorno al Jobs Act ipotizzò che la riforma fosse «un passaggio preliminare mirato al drenaggio di altre risorse dalle buste paga dei lavoratori» e più precisamente «a una decurtazione complessiva dei redditi da lavoro dipendente», all’interno di un più ampio «ridisegno complessivo del nostro sistema economico».
Nota l’economista francese Michel Husson che le trasformazioni che sono avvenute sul mercato del lavoro in Italia e altrove negli ultimi anni «non sono il prodotto di sviluppi spontanei» ma sono il risultato dell’attuazione di riforme strutturali relative all’organizzazione dei mercati del lavoro il cui «obiettivo è decentralizzare al massimo la contrattazione collettiva per avvicinarla il più possibile alle realtà delle imprese e aggiustare la progressione dei salari ai risultati di redditività di ogni singola impresa». Offrire alle imprese maggiore facilità di licenziamento rappresenta un elemento cruciale – anch’esso pienamente realizzato – di questa strategia.
Un’indagine sui salari condotta dalla Banca centrale europea mostra infatti come il 10 per cento dei datori di lavoro europei trovi più facile “regolare l’occupazione” oggi di quanto non lo fosse nel 2010. Come si può vedere nel seguente grafico, questa percentuale è particolarmente elevata (30 per cento o più) nei paesi più colpiti da queste riforme come la Grecia, la Spagna e il Portogallo. Per quanto riguarda l’Italia, solo un mese fa l’Osservatorio sul precariato dell’INPS riportava che i licenziamenti disciplinari dall’entrata in vigore del Jobs Act sono aumentati del 28 per cento.
Fonte: https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/other/eb201605_article02.en.pdf
Dal breve quadro che abbiamo tratteggiato emerge con chiarezza come la deflazione – in Italia e altrove – non sia un incidente di percorso quanto piuttosto un obiettivo che è stato perseguito con lucidità e coerenza da tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Non crederemo davvero che ora saranno quegli stessi governi a tirarci fuori dal disastro che hanno pianificato a tavolino?
Note
[1] Già nel lontano 1978 Luigi Spaventa, al tempo deputato indipendente eletto nelle liste del PCI, previde con straordinaria lucidità le conseguenze dell’imminente ingresso dell’Italia nello SME, precursore dell’euro: «Quest’area monetaria rischia oggi di configurarsi come un’area di bassa pressione e di deflazione, nella quale la stabilità del cambio viene perseguita a spese sviluppo dell’occupazione e del reddito. Infatti non sembra mutato l’obiettivo di fondo della politica economica tedesca: evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accettare di promuovere uno sviluppo più rapido della domanda interna».
[2] Vent’anni di ricerche empiriche hanno dimostrato che non esiste nessuna correlazione positiva tra flessibilizzazione del mercato del lavoro e crescita economica ed occupazionale. E l’Italia ne è la dimostrazione evidente: a partire dalla legge Treu del 1997, sono state approvate nel nostro paese ben nove riforme del mercato del lavoro, di cui sette negli ultimi sette anni, col risultato che oggi l’OCSE riconosce all’Italia il pregio di essere il paese che ha maggiormente flessibilizzato il mercato del lavoro tra i paesi industrializzati. A tal proposito è opportuno notare che l’Italia è il paese europeo in cui i salari reali sono cresciuti di meno dai primi anni novanta ad oggi, determinando una consistente riduzione della quota dei salari sul PIL.
Fonte: Eunews.it
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