di Roberto Romano
La prima cosa che si dovrebbe fare per discutere seriamente di lavoro è quella di rimuovere il precetto neoclassico di “mercato del lavoro”. Un esercizio difficile, visti i tempi che viviamo. La pubblicistica discute solo dal lato dell’offerta, introducendo elementi di flessibilità salariale, contrattuale e organizzativa. Il senso dell’operazione, avvicinare l’offerta di lavoro alla domanda di lavoro. L’idea sottostante, quella secondo cui una maggiore concorrenza (contrattuale, fiscale, salariale e organizzativa) avrebbe permesso al mercato di creare le condizioni di piena occupazione. Le recenti comunicazioni di Inps, Istat e ministero confermano l’insufficienza di queste idee.
Se i fattori di produzione fossero pienamente occupati, la concorrenza permetterebbe di accorciare i tempi della cosiddetta disoccupazione frizionale, ovvero la necessità di portare un certo numero di lavoratori da un settore meno remunerativo verso un settore più remunerativo. Spostarsi da un settore a minore o maggiore intensità di capitale sarebbe il lascito della piena occupazione. A queste strette condizioni il Jobs Act aveva una giustificazione, ma come giustamente si sosteneva nella “Teoria generale” (Keynes): la “teoria classica (liberista) si occupa solo di un caso, non di quello generale”.
Senza dimenticare che lo stesso Keynes sottolineava un particolare aspetto del lavoro: “Il volume dell’occupazione… dipende dall’ammontare del ricavo che gli imprenditori prevedono di ottenere dalla produzione corrispondente; infatti, gli imprenditori cercheranno di fissare il volume dell’occupazione a quel livello che renda massima… l’eccedenza del ricavo sul costo dei fattori”. Il postulato non aiuta a comprendere il livello di domanda e di occupazione. Dobbiamo infatti ricordare che in una società ricca “non soltanto la propensione marginale al consumo è più debole”, ma le opportunità di nuovi investimenti diventano più difficili in ragione del capitale già accumulato.
Sul punto va ricordato che l’Italia deve ancora fare gli investimenti che tutti i Paesi europei hanno da tempo già realizzato. Questo particolare aspetto dello sviluppo capitalistico è, indiscutibilmente, attribuibile a Paolo Leon (1965), quando indaga la dinamica dello sviluppo e dei profitti via legge di Engel (al variare del reddito si consumano beni diversi). In altre parole, la domanda non solo si concentra in determinati settori, ma sottende una certa dinamica industriale. Le implicazioni per il lavoro sono enormi, e non sono risolvibili con la semplice distribuzione del reddito. Per questa ragione il solo aumento della domanda, in generale, è la negazione stessa della politica economica. Non solo al variare del reddito non si consuma di più, ma si consumano beni diversi che spingono le imprese a programmare nuovi investimenti per intercettare la nuova domanda. Questa è la scheda di domanda di lavoro, necessariamente a maggiore contenuto di conoscenza o valore aggiunto. In altri termini, gli investimenti delle imprese di oggi sono l’anticipo di reddito futuro.
A questo punto, abbiamo tutti gli strumenti per indagare correttamente la domanda di lavoro. In ragione delle sue caratteristiche intrinseche, possiamo registrare la seguente segmentazione del lavoro: 1) lavoro buono e ad alto valore nei settori emergenti; 2) lavoro produttivo e con certi diritti, legato alle economie di scala per tutti i settori che beneficiano della tecnologia dei settori emergenti; 3) lavoro precario e a basso salario per tutti i settori che devono lasciare spazio alla produzione emergente di maggiore valore aggiunto.
Chi si occupa di lavoro non può fare politica del lavoro in senso stretto, ma deve fare politica economica. È infatti la scheda di domanda di lavoro che condiziona le imprese e la politica economica. Governare il passaggio da una produzione a minore valore aggiunto verso una a maggiore valore aggiunto, significa adottare delle politiche che anticipano la domanda. Il vero compito della politica economica moderna del lavoro è proprio quella di creare tanto lavoro quanto se ne perde. Un lavoro difficile, ma necessario se vogliamo agire dal lato della domanda.
Proprio la crisi che attraversa il continente europeo, in particolare l’Italia, sollecita una riflessione sulla domanda di lavoro. Come direbbe Schumpeter: “Si esce da una depressione solo quando un grappolo di innovazioni riesce a formarsi e si traduce in nuove opportunità di crescita del sapere tecnologico”. Il dibattito su salario minimo, reddito di base, flexicurity o altre forme di ri-organizzazione del lavoro, è piegato ancora sulla necessità di coniugare offerta e domanda di lavoro. Un errore d’approccio che rifiuta l’idea di sviluppo e cambiamento. Alla fine il tutto si sistema con una buona regolazione. I referendum della Cgil, pur importantissimi, trattano una faccia della medaglia, ma sarebbe utile trattarne anche l’altra. Diversamente, il lavoro sarebbe orfano dei presupposti necessari per essere rigenerato.
Fonte: Rassegna.it
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