di Massimo D'Alema
La sinistra sembra essere il bersaglio principale di quell’ondata di sentimento avverso alla politica, di quella diffusa protesta contro l’establishment che percorre gran parte dell’Europa. Non è difficile capire perché. In realtà, è persino naturale che sia proprio la sinistra a essere sul banco degli imputati, nel momento in cui la globalizzazione selvaggia provocata dal capitalismo finanziario e la sua successiva crisi hanno innanzitutto colpito protezioni e diritti sociali, aggravando diseguaglianze e povertà. In questo contesto, la sinistra appare una forza che, ben più dei partiti conservatori, è venuta meno alle sue ragioni costitutive e alla sua missione storica.
Tutto questo ci potrà sembrare ingiusto, e in parte lo è. Ma non possiamo nasconderci il peso e il rilievo delle nostre responsabilità. Innanzitutto sul piano culturale. La sinistra ha ceduto a una visione neoliberista, quasi volesse emendarsi dalle responsabilità storiche dello statalismo comunista, accettando l’idea che anche il welfare socialdemocratico fosse un peso da alleggerire nell’epoca della competizione globale. Questo è stato il nucleo fondamentale della cosiddetta Terza via. Intendiamoci: quella stagione ebbe anche i suoi meriti, perché contribuì a liberare la sinistra da incrostazioni ideologiche che non apparivano più sostenibili nella nuova stagione politica e culturale. Fu persino comprensibile, in una certa fase, che si diffondesse l’idea che gli effetti positivi della globalizzazione potessero produrre sufficiente ricchezza per tutti, rendendo meno urgente l’impegno della sinistra per una più equa distribuzione dei redditi e contro le diseguaglianze.
Questa valutazione ottimistica della globalizzazione si è rivelata sbagliata. E il punto di partenza da cui la sinistra deve riprendere le mosse non può che essere, necessariamente, la presa d’atto onesta di questo errore. Al contrario, ciò che appare particolarmente disastroso è la riproposizione, oggi, di quelle vecchie idee degli anni Novanta come se si trattasse di sfolgoranti novità, da parte di improvvisati innovatori che hanno allegramente cancellato vent’anni di storia europea e che, anche per questo, sono destinati a una breve e disastrosa apparizione.
Ciò che sembra chiaro, anche alla luce delle recenti elezioni americane, è che la sinistra potrà fare argine al populismo soltanto se sarà in grado di tornare a svolgere il suo ruolo fondamentale: essere, cioè, la forza capace di ridurre le diseguaglianze, combattere la povertà, restituire dignità al lavoro. Altrimenti, paradossalmente, queste bandiere passeranno nelle mani delle destre e della demagogia populista,
mentre noi appariremo sempre di più come i rappresentanti di un establishment lontano dai bisogni e dai sentimenti popolari. Non ha forse vinto, Trump, rivolgendosi – come egli ha detto – ai dimenticati della globalizzazione? Certo, poi il neopresidente sta procedendo a mettere ai vertici della sua Amministrazione i capi più feroci e antioperai delle grandi società multinazionali. Ma, proprio per questo, appare più doloroso il paradosso nel quale ci troviamo.
Detto ciò, il punto focale della crisi e di una possibile ripresa del ruolo del centrosinistra e del movimento progressista rimane in Europa. Credo che si debba cercare di capire in profondità cosa sta avvenendo nelle società europee e nei sistemi politici. Per una lunga fase storica, a partire dalla seconda guerra mondiale, la politica del Vecchio continente si è sostanzialmente articolata intorno a due pilastri. Da una parte una forza conservatrice, che poi si è organizzata, a livello dell’Unione, nel PPE. Dall’altra la socialdemocrazia, riunitasi nel PSE insieme a forze progressiste come il Partito Democratico italiano. Naturalmente vi sono state anche altre componenti e alcune significative varianti nazionali, in particolare in Italia e, fino a un certo periodo, anche in Francia, per l’esistenza di rilevanti partiti comunisti. Tuttavia, il bipolarismo europeo si è sostanzialmente articolato tra popolari e socialisti. A ciò corrispondeva anche una relativa compattezza dei blocchi sociali, con un forte legame fra un movimento sindacale assai radicato e i partiti socialdemocratici. Questo tipo di bipolarismo europeo appare, oggi, sconvolto da crescenti novità. Anzitutto, novità che hanno investito le società, con la riduzione progressiva del peso del mondo operaio e sindacale, la crescita e l’impoverimento dei ceti medi, l’espansione dell’area della povertà e dell’emarginazione. Nello stesso tempo, è cresciuto il peso della finanza, la concentrazione dei mezzi di informazione nelle mani del potere finanziario, il che ha favorito una degenerazione oligarchica dei sistemi democratici europei.
Sul piano essenzialmente politico, si sono aperte nuove faglie rispetto a quella tradizionale tra capitale e lavoro. Senza dubbio, la globalizzazione ha rafforzato le spinte nazionalistiche e localistiche in chiave antieuropea. Così come i crescenti fenomeni di emarginazione e impoverimento hanno alimentato un sentimento antiestablishment, che si è dato nuove forme di rappresentanza sia a destra che a sinistra. O anche in modo totalmente innovativo e difficilmente interpretabile sulla base delle tradizionali categorie politiche. È ciò che noi chiamiamo, con una espressione impropria e sommaria, populismo.
Sono tendenze che fanno sì che si restringa progressivamente l’area dei partiti che sostengono il processo europeo, costringendo queste forze a una innaturale collaborazione fra di loro, come accade a livello dell’Unione, in Germania, in Spagna, in Austria, in una certa misura anche in Italia e, tendenzialmente, in altri paesi. Il rischio, per i socialisti, è grave: diventare progressivamente junior partners delle forze conservatrici, appannando la propria identità e rafforzando così le ragioni di chi guarda all’establishment europeo come a un insieme sostanzialmente, politicamente e culturalmente omogeneo.
Non sembra neppure, in verità, che i socialisti riescano a ottenere, grazie alla loro collaborazione, degli effettivi mutamenti di fondo nelle politiche e nelle scelte europee. Non si può certo negare che qualcosa si sia mosso, in particolare con l’introduzione di un principio di flessibilità che consente di sfuggire, a determinate condizioni, alla rigidità dei vincoli del patto di stabilità. Ma siamo ben lontani da quella profonda svolta nel senso di una politica tesa alla crescita economica, al rinnovamento e rilancio del welfare, alla lotta alla povertà e alle diseguaglianze, che sarebbe indispensabile per riguadagnare la fiducia dei cittadini nel processo europeo. In particolare, il criterio della flessibilità spinge i governi progressisti dei singoli paesi più a negoziare margini di manovra a livello nazionale, magari alzando la voce, che non a battersi per una sterzata delle politiche a livello europeo.
Il bandolo della matassa rimane nelle mani delle forze conservatrici dominanti e di una tecnostruttura che lavora al loro servizio. E il prezzo da pagare alla flessibilità consiste, in fin dei conti, nell’accettazione di quella logica delle riforme neoliberali che riducono le tutele sociali e i diritti del lavoro.
Il risultato di questo meccanismo è un progressivo ridimensionamento dello spazio della sinistra e l’inevitabile propensione alla crescita delle forze antisistema e antiestablishment. Una crescita che potrebbe essere arginata – come sottolineato precedentemente – soltanto da una sinistra capace di tornare a fare il suo mestiere.
Se, poi, la flessibilità finisce per essere utilizzata non tanto per promuovere investimenti e innovazione, quanto per ridistribuire risorse in chiave elettoralistica, come purtroppo è accaduto nel nostro paese, allora il risultato diventa completamente negativo, portando a un ulteriore aumento del debito, senza che vengano aggredite le ragioni della crisi, nell’illusione che una pura e semplice riduzione della forza dei sindacati e delle tutele dei lavoratori, insieme a un generoso trasferimento di risorse pubbliche alle imprese, siano da sole la condizione di una robusta ripresa economica. Ma ciò, come si è visto, non è vero.
È particolarmente evidente, per un paese come l’Italia, che la caduta della produttività del lavoro e della competitività possa essere arrestata, e la tendenza invertita, solo investendo massicciamente sulla formazione e sulla innovazione, così come sulla qualità del lavoro. Il dilagare della precarietà dei voucher e la perdita di certezze e di tutele che si sono prodotti con il Jobs Act non rappresentano certo una risposta alle ragioni di fondo della crisi italiana. Così come il caotico decadimento della scuola, favorito dal provvedimento della Buona scuola, non aiuta certamente la riaffermazione della dignità degli insegnanti e il miglioramento della qualità stessa dell’insegnamento.
Anche la riforma costituzionale è apparsa in continuità con questo tipo di riformismo neoconservatore. Al di là del metodo con cui essa è stata varata e dell’impostazione irresponsabilmente plebiscitaria del referendum popolare, ciò che ha suscitato la risposta negativa dei cittadini è stata proprio una impronta culturale volta a ridurre gli spazi della partecipazione, del controllo parlamentare, dell’autonomia delle comunità locali, nel nome di una razionalizzazione semplificatrice all’insegna dell’accentramento e della governabilità. So bene quanto sia importante la stabilità dei governi, ma credo che sia pericolosa l’ideologia di una governabilità che non si fondi sul consenso e sulla partecipazione. Perché non c’è governo – soprattutto se per governo si intende la guida di un processo di trasformazione sociale – che possa prescindere dalla partecipazione consapevole della maggioranza dei cittadini e dal contributo attivo dei corpi intermedi della società.
La riforma costituzionale andava in senso esattamente opposto ed è stata percepita come una ulteriore sottrazione di diritti, in particolare determinando una rivolta della stragrande maggioranza dei giovani, che già sperimentano la mancanza di un sistema di istruzione all’altezza dei tempi che stanno vivendo e la perdita del diritto a un lavoro dignitoso.
Lungo questi percorsi, la sinistra smarrisce se stessa, si allontana dalle sue ragioni e dal suo popolo. E così appare destinata non solo a un progressivo ridimensionamento del suo ruolo, ma a una sostanziale subalternità politica e culturale. Il rischio vero è che, senza una forte e visibile alternativa alle politiche tuttora dominanti in Europa, prendano consistenza, anche all’interno della sinistra, illusioni regressive, come quella della fuoriuscita dall’euro e della rinazionalizzazione delle politiche economiche.
Ma, soprattutto, occorrono una svolta politica e il coraggio di rompere con il conformismo e l’eccesso di prudenza e gradualità che hanno finora caratterizzato l’azione del socialismo europeo, pena il rischio di una deriva irrimediabile, soprattutto se investirà paesi chiave come l’Italia e la Francia. Ciò che occorre è mettere in campo un programma effettivamente radicale di cambiamento delle politiche europee e, in prospettiva, degli stessi assetti istituzionali. Una visione europea che sia anche la guida per concrete politiche nazionali. Una spinta, in questo senso, viene ormai da tanta parte del pensiero economico, da Joseph Stiglitz a Paul Krugman, da Mariana Mazzucato a Thomas Piketty, al nostro Salvatore Biasco. Ma ancora non si traduce in un coerente e coraggioso programma politico.
Quali potrebbero essere i pilastri per un nuovo programma politico?
Innanzitutto la politica, cioè lo Stato e le istituzioni, devono riappropriarsi della sovranità fiscale e tributaria. La leva dell’imposizione non è in grado di funzionare come strumento di redistribuzione della ricchezza e di riduzione delle diseguaglianze. La rendita finanziaria ma anche i profitti delle grandi società multinazionali sono toccati solo marginalmente dalla fiscalità. Pagano esclusivamente il lavoro e le PMI. Naturalmente, mi rendo conto che si tratta di una sfida di grandissima portata. Essa deve diventare una priorità nell’agenda europea, ma, soprattutto, una grande priorità che l’Europa deve saper proporre a livello globale. Gordon Brown lo scrisse con chiarezza nel momento conclusivo del G20 di Londra del 2009, uno dei più drammatici della crisi finanziaria. Ben prestò, però, tutto questo è stato dimenticato e si è pensato di tornare al business as usual.
Serve, inoltre, un grande piano per la crescita in Europa, che comporta massicci investimenti, anche pubblici e anche finanziati in deficit. Ben oltre i confini dell’asfittico Piano Juncker. È tempo di distinguere con chiarezza, nel patto di stabilità, la spesa pubblica dagli investimenti. Contemporaneamente, una seria regolazione finanziaria e un sistema di incentivi devono indirizzare il risparmio verso fini produttivi e non speculativi.
C’è poi bisogno di un grande progetto europeo per la formazione, la ricerca e l’innovazione.
E, ancora, è necessario un patto sociale, nuovo, basato anche su un rapporto diverso tra Stato, società civile, privato sociale, imprese, per rinnovare il welfare mantenendo, però, la capacità di questo sistema di proteggere effettivamente le persone dalla povertà, dall’esclusione, dalle malattie, evitando il rischio di una americanizzazione selvaggia delle società europee.
Occorre, infine, tornare a discutere delle possibili soluzioni per una forma di mutualizzazione del debito che, senza ovviamente scaricare di responsabilità i debitori, consenta di bloccare la speculazione e di avviare una politica di riduzione del servizio del debito. In assenza della politica, passi importanti in questa direzione sono stati compiuti dalla BCE. Ma non basta. È giunto il momento che i governi e le istituzioni di Bruxelles si assumano le loro responsabilità. Anche per questo, in conclusione, serve un’Europa più unita e più forte. Se guardo allo scenario internazionale a seguito dell’elezione di Trump, questa necessità mi sembra ancor più drammaticamente urgente. Forse, senza coltivare l’illusione in tempi brevi di una nuova Costituzione europea, si dovrebbe partire da una cooperazione rafforzata almeno tra i paesi dell’area dell’euro, che appare essenziale anche per difendere e rilanciare la moneta unica. Una sinistra europea che avesse il coraggio di mettere sul tavolo con chiarezza un programma così netto e coraggioso avrebbe almeno la possibilità – ne sono convinto – di tornare a parlare alle nuove generazioni e al mondo del lavoro.
A nessuno sfugge quanto arduo sia il cammino da intraprendere per realizzare un programma di questo genere. Ma mettersi in marcia in questa direzione restituirebbe un orizzonte e una missione al socialismo europeo all’altezza di ciò che la migliore socialdemocrazia ha saputo realizzare prima del 1989 al livello degli Stati nazionali nell’Europa democratica.
Fonte: italianieuropei.it
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