di Giovanni Mazzetti
Abbiamo più volte sottolineato, nei nostri precedenti quaderni, che stiamo attraversando una situazione nella quale prevale uno stato di confusione sociale generale. La maggior parte di noi non sa infatti che cosa sta succedendo, e anche quando ripete continuamente che “siamo in crisi”, ne ha un’idea vaga, come quelle dei nostri lontani antenati sui terremoti e sulle epidemie. Né possiamo far affidamento sui responsabili della cosa pubblica che, spesso in coro con i loro stessi oppositori, si ostinano a ripetere vecchi luoghi comuni validi in passato. In molti rinunciano così a cercare un senso della situazione, o si appoggiano sull’ipotesi opportunistica che tutto dipenda da comportamenti devianti di individui malvagi, che, cercando il loro tornaconto, causano un danno agli altri.
Tuttavia questa interpretazione costituisce l’ingenua reazione di chi non sa nulla di come intervengono normalmente le trasformazioni sociali. Coltivando l’erronea convinzione che gli esseri umani sovrastino strutturalmente la propria realtà, credono che normalmente sussista il potere di determinarne l’evoluzione, conformandola alla propria volontà. E se la loro azione non produce gli effetti sperati, ciò può accadere solo perché la volontà di qualcun altro imprime alle cose quella tendenza di cui si soffre. Ora, la volontà è senz’altro una condizione del cambiamento. Ma la volontà, senza l’acquisizione della capacità che le dà una forma corrispondente al problema, è cieca. La convinzione che la confusione attuale sia un evento arbitrario determina, poi, l’instaurarsi di una situazione nella quale l’apprendimento è ostacolato, se non addirittura precluso. L’attribuzione di una colpa agli altri svolge così solo la funzione di negare il proprio stato confusionale e di ignorare la necessità di una spiegazione.
La confusione non è dunque l’effetto di un arbitrio, bensì il sintomo che ci troviamo in una situazione con la quale non sappiamo ancora interagire. E non sappiamo interagire con essa perché il mondo è cambiato in profondità. Una profondità che non riusciamo a sperimentare perché, pur procedendo nel suo ambito, lo facciamo con le limitate capacità acquisite nella precedente situazione, che non ci consentono di rapportarci positivamente alla nuova realtà. Poiché è molto probabile che questa ricostruzione dell’attuale stato di cose faccia storcere il naso a più di un lettore, ci sembra utile richiamare un fenomeno apparentemente paradossale che la conferma.
Tutti noi siamo convinti che il vedere sia una capacità innata e che non appena il senso della vista funziona regolarmente siamo in grado di orientarci nel mondo coerentemente con gli oggetti che lo compongono. Tuttavia, negli anni trenta del Novecento, un medico oculista M. von Senden inventò un metodo per intervenire chirurgicamente sui pazienti che, essendo affetti da cecità congenita, non avrebbero mai recuperato la vista. Era convinto che recuperandola i pazienti si sarebbero sentiti “arricchiti” di una nuova facoltà. Ma le cose andarono molto diversamente. Nella maggior parte dei casi, la “nuova” facoltà, invece di semplificare le cose le complicò maledettamente. Quelle persone avevano, infatti, elaborato un’esperienza del mondo circostante attraverso una costruzione culturale che poggiava completamente sugli altri organi di senso. Quando su questa costruzione piombò quella che potenzialmente costituiva una facoltà aggiuntiva, la vista, che tutti noi consideriamo come il principale ausilio orientativo, il mondo invece di rischiararsi finì col confondersi.
Poiché per tutti noi questo tipo di esperienza non è chiaramente rappresentabile, lasciamo per un attimo la parola a Spitz , che ha raccolto molto produttivamente il senso di quella vicenda.
“Von Senden studiò 63 soggetti nati ciechi e da lui operati di cataratta congenita a età che andavano tra i tre i quarantatré anni. Von Senden riferisce che la loro reazione di fronte alla ‘benedizione’, conferita ad essi, cioè il ‘dono della vista’ era, a dir poco, inaspettata. Nessuno sperimentò la guarigione come una benedizione. Risultò, infatti, che, benché avessero acquisito la vista non erano in grado di vedere [spontaneamente]. Dovettero proprio letteralmente imparare a vedere, con un lungo, laborioso e penoso processo che causava loro un’angoscia mentale senza fine. Quando parliamo di un lungo processo, intendiamo mesi e anni; molti non impararono mai a vedere; alcuni espressero il desiderio di essere ancora ciechi”.
Siamo così ricondotti al punto centrale: l’acquisizione di nuove capacità umane è un processo sofferto, e comporta una fatica della quale la maggior parte delle persone non ha memoria, appunto perché l’acquisizione di quelle di cui siamo portatori è avvenuta prevalentemente per una sorta di imprinting, cioè in modo spontaneo e inconsapevole. Ma proprio per questo è sempre unilaterale, e cioè comporta una forma di “cecità” nei confronti del nuovo.
Quando emerge una contraddizione è come se improvvisamente gli individui fossero sottoposti ad un’operazione analoga a quella di von Senden, di rimozione della cataratta congenita nei confronti dell’evoluzione sociale, e si trovassero di fronte una realtà che non conoscono e non hanno ancora imparato a metabolizzare con la sensibilità che hanno acquisito per imprinting.
Le contraddizioni che sono piombate sullo Stato sociale, in conseguenza del sostanziale raggiungimento dei principali obiettivi che con la sua costruzione si perseguivano, rappresentano l’apertura verso un profondo mutamento nelle condizioni riproduttive dell’umanità. Ma noi dobbiamo ancora imparare a vedere di che cosa si è trattato. E, tuttavia, la maggior parte di noi sembra volere regredire alla forma di cecità preesistente, proprio per eludere la sofferenza e la fatica di confrontarsi con i problemi di quel mondo nuovo che abbiamo prodotto.
Non si fraintenda il senso di questa asserzione. Il cieco sperimenta normalmente uno specifico rapporto col mondo, e cioè elabora una forma d’interazione con l’ambiente che consente una sua coerente riproduzione. Ciò che noi abbiamo fatto nell’ambito dei rapporti borghesi, grazie ai quali si è formata la nostra individualità.
Mentre seguendo il capitale abbiamo imparato ad interagire col mondo dei prodotti umani fino a metabolizzarli quotidianamente nella forma generale rappresentata dal denaro, con lo Stato sociale abbiamo fatto un ulteriore passo avanti, cominciando a sperimentare – con la politica keynesiana del pieno impiego – il lavoro come la forza produttiva dalla quale quella ricchezza scaturiva. Ma la convinzione che ciò potesse bastare a lungo era ingannevole, appunto perché, una volta che quel cambiamento ha prodotto i suoi effetti positivi, siamo piombati in un mondo per noi sconosciuto. Quel mondo che per Keynes “ci avrebbe fatto paura”. Sin qui ci siamo infatti “evoluti, con tutti i nostri impulsi e con tutti i nostri istinti per affrontare il problema economico [della miseria], cosicché quando questo sarà sostanzialmente risolto ci troveremo privati del nostro scopo tradizionale”. Come i pazienti di von Sender, non sappiamo come rapportarci alle nuove circostanze, e consideriamo l’arricchimento come un guaio, appunto perché ci impone un sofferto apprendimento.
Qui di seguito proponiamo un saggio dell’inizio del 1996, nel quale il Centro Studi ha cercato di offrire un’interpretazione della natura dello Stato sociale e di accennare ai motivi della crisi esplosa sul finire degli anni settanta. Ci sembra necessario rievocare quel passaggio perché, di solito, nello stato confusionale il regresso impedisce anche di conservare memoria di come eravamo, finendo magari con l’idealizzare una condizione che è sfociata nei problemi con i quali da lungo tempo non sappiamo fare i conti.
Uniamo i migliori auguri di un anno proficuo a coloro che ci seguono, sollecitandoli a interloquire per i punti difficili da comprendere o controversi.
Articolo pubblicato su redistribuireilavoro.it
Fonte: sinistrainrete.info
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