di Lia Tagliacozzo
Non si addice a un libro di storia tenere i lettori con il fiato sospeso, a maggior ragione se il libro riguarda gli anni tra il 1943 e il 1945. Come è andata a finire è noto: gli Alleati e i Partigiani hanno vinto e per l’Italia è iniziata una nuova vita, libera dall’oppressione della dittatura fascista, restituita – seppur brevemente – ad una, codarda, monarchia parlamentare. Eppure il libro di Carlo Greppi Uomini in grigio (Feltrinelli, pp. 377, euro 20) lascia spesso il lettore incerto, in ansiosa partecipazione di piccoli destini individuali.
RACCONTA, infatti, non la Storia ma tante piccole storie, incroci, a volte casuali, di destini, vicende piccole di uomini grigi non certo per il colore della divisa che indossavano ma per lo spazio in cui scelte, motivazioni, casualità, vite li hanno collocati: quello della zona grigia descritta da Primo Levi, «un’espressione – scrive Greppi – che è stata letteralmente consumata a furia di essere brandita nel discorso pubblico, ma quando ci navighi dentro ti sembra davvero il giusto, l’unico modo, di dire tutto questo».
Così se il pomeriggio del 10 settembre 1943 iniziò l’invasione nazista di Torino la realtà in cui questa avviene è già andata delineandosi da mesi, forse anni. Una realtà di cui Antonio M. è protagonista, uno tra i condannati che poi, a migliaia, nella seconda metà del 1946, lasciano il sistema penitenziario italiano. «Le tracce di Antonio M. le perdiamo qua, immaginandolo sulla soglia della casa penale di Firenze, abbagliato dalla luce del giorno, pronto a ricominciare». Ma, al contrario della magistratura, l’indagine storica non giunge ad una risposta definitiva: il brigadiere fu carnefice e, forse, anche salvatore, a testimoniare di una vicenda umana che cambia nello svolgersi del tempo. Il brigadiere Antonio M. «piuttosto basso di statura, col viso un po’ rotondo, e – mi pare – i capelli scuri, di apparente età dai 40 ai 45 anni al massimo» viene arrestato il 22 maggio del 1945 dagli agenti del commissariato di Polizia: «un uomo – scrive Greppi – del primo e secondo fascismo, dunque, un uomo che, seppur non più giovane, era entrato a far parte della Polizia Politica della Repubblica Sociale Italiana a Torino. Eppure, così sembra ancora oggi, un signor nessuno». «I capi di imputazione contro Antonio M. – prosegue lo storico – non sono da poco, anche per il tempo di guerra. È accusato di avere effettuato due arresti e delle loro drammatiche conseguenze»: Carlo Pizzorno, fucilato a Torino, e Pierino Cerrato deportato a Dachau.
Eppure Antonio M. è un uomo piccolo la cui cifra è «sospesa tra la complicità più o meno convinta con i nazifascisti e la “resistenza civile” (coloro che senz’armi ospitarono, collaborarono, protessero i partigiani), c’era una parola che indicava il tentare di sottrarsi alla responsabilità della scelta in tempo di guerra, o il cercare di scampare, in qualche modo, alla guerra. Era la parola “spettatori”… perché furono tanti, tantissimi, coloro che oltre settant’anni fa provavano a stare immobili ma stavano vagando – consapevoli o meno – in un’area dai contorni sfumati». È a quest’area che Greppi dedica la propria attenzione ed è quindi a partire dalle carte processuali che riguardano il brigadiere che Carlo Greppi inizia la sua indagine ed il suo lavoro di ricostruzione: «di questi non protagonisti volevo sentire la voce e, per iniziare, avevo bisogno di un appiglio, di un punto di partenza»: per l’appunto la storia del brigadiere Antonio M. che incrocia quella di molti altri: alcuni vittime, altri carnefici e molti altri che, come lui, cercarono di barcamenarsi. Antonio M. infatti è protagonista solo per comodità di racconto. «Il brigadiere Antonio M. – commenta Greppi nel presentarlo – era uno di loro: un protagonista sfumato, dai contorni vaghi, in una storia che di protagonisti non dovrebbe averne: Antonio M. era un uomo che non dava ordini – li eseguiva – e che nell’immediato dopoguerra venne incriminato per le sue azioni».
IL LIBRO è una ricostruzione effettuata «con gli attrezzi del mestiere di storico» ma che prende le mosse da un’interrogarsi personale che accompagna chi fa ricerca: «io non lo so, come mi sarei comportato, se fossi stato Antonio M – racconta Carlo Greppi – e anche per questo ho voluto coprirlo con quella iniziale del cognome puntata che regala a lui, ai suoi, al cognato e alla moglie l’anonimato che forse avrebbero voluto», eppure – prosegue Greppi – «La scelta di guardare le vite – e, in alcuni casi, la morte, di questi uomini in grigio deve attivare in noi la capacità di dimenticare le categorie, da un lato, ma restando granitici al contempo, nel nostro personale, e per questo prezioso, giudizio morale sui fatti che andremo a raccontare. L’articolo di Primo Levi (un testo sulle responsabilità alleate nei confronti della Shoah ndr) – terminava così: “ma di una vera complicità non si può parlare, e resta abissale la differenza morale e giuridica tra chi fa e chi lascia fare”».
Fonte: Il manifesto
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