di Carmelo Albanese
Se fosse un film sarebbe Tutti gli uomini del Re, la pellicola premio Oscar del 1950 prodotta e diretta da Robert Rossen. Se fosse un gioco sarebbe Snake, l’ossessione di tutti i possessori di telefonini Nokia dalla metà degli anni Novanta in avanti. Se fosse un piatto sarebbe la frittura di paranza. Sarebbe comodo, certo, ma non è così semplice. La vicenda del movimento antimafia, di cui Francesco Forgione traccia l’evoluzione e il triste epilogo ne I tragediatori, non è riducibile a un film, a un video game o a una pietanza. Per averne un quadro quanto più possibile esaustivo dobbiamo ricorrere alla fotografia. È il 19 luglio del 2014.
In via D’Amelio, a Palermo, si ritrovano le autorità, i cittadini e i familiari delle vittime della strage nella quale ventidue anni prima avevano perso la vita Paolo Borsellino e i cinque agenti che lo accompagnavano. Ad un tratto appare anche Massimo Ciancimino, figlio del più noto don Vito, l’uomo politico di riferimento dei corleonesi, sindaco di Palermo tra il 1970 e il 1971. Nell’imbarazzo generale, Ciancimino junior si dirige verso Salvatore Borsellino, il fratello del giudice assassinato da Cosa Nostra, e viene accolto da questi con un caloroso abbraccio per – avrebbe dichiarato successivamente nel furore delle polemiche – aver «permesso lo svolgimento del processo Stato-mafia».[1]
In via D’Amelio, a Palermo, si ritrovano le autorità, i cittadini e i familiari delle vittime della strage nella quale ventidue anni prima avevano perso la vita Paolo Borsellino e i cinque agenti che lo accompagnavano. Ad un tratto appare anche Massimo Ciancimino, figlio del più noto don Vito, l’uomo politico di riferimento dei corleonesi, sindaco di Palermo tra il 1970 e il 1971. Nell’imbarazzo generale, Ciancimino junior si dirige verso Salvatore Borsellino, il fratello del giudice assassinato da Cosa Nostra, e viene accolto da questi con un caloroso abbraccio per – avrebbe dichiarato successivamente nel furore delle polemiche – aver «permesso lo svolgimento del processo Stato-mafia».[1]
Questa “distruttiva” istantanea, come l’ha recentemente definita Peppino Di Lello[2], uno dei quattro giudici del pool antimafia voluto da Giovanni Falcone, solo apparentemente immortala la riconciliazione tra due parti inconciliabili; piuttosto, la sua forza estetica racconta l’ingloriosa fine di un’esperienza. È la storia dell’antimafia dell’ultimo ventennio, una storia perfettamente coincidente con l’ascesa e il declino della cosiddetta Seconda Repubblica e dei suoi falsi miti, della quale ha assorbito gran parte degli aspetti degenerativi che l’hanno condotta al collasso. L’ideologia dell’antiberlusconismo innanzitutto, che ponendo in secondo piano l’approfondimento critico delle questioni, livellando storie e tradizioni culturali e politiche e, soprattutto, rifiutando di definire un orizzonte programmatico, ha sussunto anche il “marchio dell’antimafia”, stabilendo una definizione della verità «per opposizione al proprio contraddittorio».[3] In secondo luogo, il meccanismo della delega, frutto avvelenato di una “cultura maggioritaria” che dai primi anni Novanta è diventata prevalente in Italia.
Nel movimento antimafia tale processo si è tradotto nell’affidamento pressoché incondizionato agli organi inquirenti, identificati – e molto spesso auto-praclamatisi – quali infallibili custodi di valori etici che andavano difesi dalla politica, “rapace e corrotta”, e nella costruzione – o auto-costruzione – di icone che, tra una platea da infiammare nel corso di un convegno e uno schermo da bucare in un dibattito televisivo, hanno scoperto che “l’anti” costituiva un connotato potente per creare rendite di posizione e favorire carriere e scalate.
È indubbio che in assenza di un circuito mediatico permeabile e molto spesso interessato a divenire, come scrive Forgione, «laboratorio teorico e culturale di questa operazione» (p. 21), [4] e a stabilire ricostruzioni dogmatiche tanto semplicistiche quanto funzionanti, si sarebbe potuto porre rimedio per tempo a tali derive, aprendo un confronto libero e franco sulle forme e sulle pratiche. Ma l’aura di sacralità che ha circondato Verbo e persone ha nei fatti neutralizzato la possibilità che si innescasse un dibattito. E quando qualcuno cercava di riproporlo, veniva immediatamente tacciato di tradimento o addirittura di contiguità con il nemico. Poi, ad un tratto, il sogno di un mondo idilliaco, edificato sulla contrapposizione tra il fronte dei “buoni” e quello dei “cattivi”, si è trasformato nel suo contrario: in un incubo.
Il primo segnale di tale metamorfosi è stato il fallimento delle esperienze politiche di Italia dei valori dell’ex Pm di “Mani pulite” e di Rivoluzione civile di Antonio Ingroia, titolare dell’inchiesta sulla cosiddetta “Trattativa”. Ma è stato solo quando, a partire dalla primavera del 2015, la magistratura ha iniziato a interessarsi alla gestione dei beni confiscati e al “ventre molle” della Sicilia (p. 65), ovvero al rapporto tra mafia e imprese, che sono venute a galla contraddizioni e ritardi del movimento. In primo luogo, nell’individuare chiaramente le incrostazioni presenti nel sistema dei sequestri e delle confische che, pure, costituiscono la strada maestra nella strategia di contrasto a Cosa Nostra; in secondo luogo, nel comprendere come in nome della legalità e dell’antimafia si fosse costituito un ”califfato” con al vertice Sicindustria, la «più grande impostura – secondo il giornalista Attilio Bolzoni – andata in scena in Sicilia nell’ultimo quarto di secolo»;[5] in terzo luogo, nel porre in essere processi sostanziali di autoriforma.
Antonello Montante, Ivan Lo Bello, Roberto Helg, Salvatore Ferlito, Silvana Saguto, infatti, non sono stati solamente esponenti di primo piano del mondo imprenditoriale siciliano e dell’amministrazione statale, ma negli anni sono anche divenuti paladini della legalità e dell’antimafia, utilizzando questa etichetta come una sorta di passe-partout per scalare posizioni e costruire reti di relazioni trasversali al mondo politico e imprenditoriale. È questo e non altro “la grande impostura dell’antimafia” di cui parla l’autore: una “tragedia” (nel significato mafioso di “menzogna”, “inganno”) la cui autenticità è stata pirandellianamente certificata nel dicembre del 2015 dalla Commissione parlamentare antimafia, che, con una serie di audizioni di studiosi, giornalisti e scrittori conclusasi nel febbraio di quest’anno, ha inaugurato un filone d’inchiesta «sul movimento civile dell’antimafia, per approfondire i tratti caratteristici e individuarne anche i limiti e le contraddizioni evidenziate dai recenti fatti di cronaca».[6] Una “tragedia” che investe direttamente Libera.
Negli anni della crisi della politica, la più nota e importante associazione antimafia ha di certo avuto il merito di recuperare e riportare alla partecipazione molti cittadini – soprattutto giovani – che abbandonavano con sdegno i partiti tradizionali o che si collocavano in una posizione di rifiuto di quella forma organizzata. Tuttavia, bisogna convenire con Forgione che l’associazione fondata da don Ciotti, dilatandosi a dismisura e senza controllo (oggi Libera coordina ben 1500 associazioni, gruppi, scuole e realtà di base su tutto il territorio nazionale), e sviluppando un rapporto quotidiano con le istituzioni, non solo non è stata in grado di salvaguardare la propria autonomia da alcuni settori della magistratura «interessati ad avere una struttura militante disponibile e funzionale alla costruzione e alla promozione della propria immagine e della propria visione politico-culturale» (p. 63), ma ha anche subìto un graduale processo di burocratizzazione.
Historia magistra vitae? Può darsi. Sta di fatto che nelle lotte sociali che si sono sviluppate in Sicilia a partire dagli anni Quaranta, quando lo Stato sembrava porsi in posizione antagonista rispetto alle istanze di progresso, contadini e dirigenti politici e sindacali continuavano a rifarsi alle sue norme, e ricordavano la propria funzione ai carabinieri che volevano interrompere l’occupazione di un feudo sventolando il testo della Gazzetta ufficiale contenente i “decreti Gullo”, ma non si rifacevano a un articolo di giornale o al libro scritto da un presunto santone. Come ha spiegato nel corso della sua audizione lo storico Salvatore Lupo ai parlamentari della Commissione antimafia, quelli «erano movimenti riformatori o anche rivoluzionari, intesi a un radicale mutamento politico e/o a una rivoluzione sociale» che «nel concreto dello scontro politico e sociale si trovavano davanti proprio i mafiosi».[7]
Ecco, io credo che stia esattamente qui il punto di discrimine. Nel secolo scorso i proponimenti e le mobilitazioni dei soggetti politici che le animavano erano naturalmente connotate in senso antimafioso poiché si riteneva che la lotta contro Cosa Nostra non potesse essere isolata dalle battaglie più generali per il risanamento della società. «Si tratta di cambiare i rapporti fra lo Stato e i cittadini – scriveva Pio La Torre nel 1974 –, lottando per un profondo rinnovamento delle strutture economiche, sociali e politiche in Sicilia e in Italia».[8] È stato questo un tratto comune a esperienze di vita tra loro anche molto diverse, spesso finite tragicamente: da quella di Epifanio Li Puma a quella di Placido Rizzotto, da quella di Salvatore Carnevale a quella di Pio La Torre, fino alla peculiare vicenda di Peppino Impastato, il cui incontro con il Pci prima e con i movimenti della “nuova sinistra” successivamente lo portarono a rompere con il suo contesto familiare mafioso.
Immaginare che “antimafia” potesse costituire il mero aggettivo qualificativo di un movimento privo di una idea del mondo, di una ambizione trasformativa dei rapporti sociali, incapace di realizzare “inchiesta”, nel senso utilizzato e praticato da Danilo Dolci, probabilmente non è stato solo un errore, ma il vero peccato originale che ha condotto all’esaurimento un fenomeno che, proprio per la debolezza – quando non l’assenza – di saldi riferimenti politico-culturali, e di visioni a medio termine, ha vissuto, finché ha potuto, nella finzione massmediatica.
Oggi, a una stagione che si è definitivamente conclusa, occorrerebbe farne seguire un’altra in cui fare tesoro degli errori commessi. Guadagnare un punto di vista autonomo dalla politica e dalla magistratura, recuperando al contempo il valore della critica del potere e dell’economia, come suggerisce l’autore, sia non solo opportuno, ma a questo punto anche necessario; così come ritengo che farsi iniziatori di un grande dibattito sulle forme di aggregazione, sgombrando il campo da resistenze preconcette e ponendo a verifica la validità/utilità di quelle esistenti, possa dare impulso a una battaglia culturale e politica che andrebbe sì rilanciata, ma su nuovi presupposti e aggiornate analisi. Quanto ancora sia possibile far rinascere l’antimafia «dalle ceneri di se stessa»[9] è però il vero punto di domanda, e, forse, l’unico aspetto in cui l’ottimismo della volontà dell’autore contrasta con il radicale pessimismo che ispira il presente.
Note
[1] Salvatore Borsellino: “L’abbraccio a Ciancimino? Lo rifarei”, www.palermo.repubblica.it, 22 luglio 2014. Sul ruolo di Massimo Ciancimino nel processo sulla cosiddetta “Trattativa” cfr. G. Fiandaca, S. Lupo, La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa, Laterza, Roma-Bari 2014.
[2] “Di Lello: L’abbraccio fra Ciancimino e Borsellino l’immagine più distruttiva dell’antimafia”, www.palermo.repubblica.it, 4 novembre 2016.
[3] Cfr. Stefano Maschietti, Dire il controvertibile. Una riflessione su “verità” e “realtà” del molteplice, www.giornaledifilosofia.net, novembre 2012, pp. 1-92, la citazione è a p. 57.
[4] Oltre alla già menzionata “Antimafia duemila”, vere e proprie fabbriche di “verità antimafiose” indiscutibili sono “Micormega” e “Il Fatto Quotidiano”. Con questo specifico intento, nel 2011 alcuni ex giornalisti dell’importante quotidiano d’inchiesta “l’Ora” avevano fondato un mensile, “I Quaderni de L’Ora”. La pubblicazione, però, malgrado avessero fornito il proprio contributo figure “prestigiose” come Ingroia e Scarpinato, ebbe vita breve.
[5] Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, audizione di Attilio Bolzoni, 2 febbraio 2016, resoconto stenografico, p.5.
[6] Intervento introduttivo del presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, nel corso dell’audizione di Salvatore Lupo, 1° dic. 2015, resoconto stenografico, p. 2.
[7] Audizione di Salvatore Lupo in Cpa, resoconto stenografico, p. 4.
[8] P. La Torre, Luciano Leggio: latitante di Stato?, “Quaderni siciliani”, a. II, nn. 5-6, maggio-giugno 1974, pp. 32-36, la citazione è a p. 36.
[9] E. Lauria, Manifesto per la nuova antimafia “Equidistante da pm e politici”, “la Repubblica”, edizione di Palermo, 23 aprile 2016.
Fonte: lavoroculturale.org
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