di Tommaso Cerno
Aristotele chi? Al contrario della logica classica, nell’Italia dei contrappesi e dei controsensi, abbiamo dimostrato che una proposizione può essere vera e al stesso tempo falsa. Il popolo ha scelto, con ampi numeri, che la Costituzione resti immutata. E la spinta democratica è stata così forte da costringere il premier Matteo Renzi a dimettersi. Giusto. Quindi, per la gente normale, vuol dire votare. Perché il senso politico, profondo di quel responso, di quell’urlo al governo è: vogliamo decidere noi.
Peccato che, al tempo stesso, la Carta in vigore dal ’48 affermi - sintesi proporzionalista di ogni forma terrena di bilanciamento - che non è il popolo a formare il governo, che non si vota quando il popolo lo desidera, che un premier non è scelto dalla gente, né ha mandato popolare. Miraggio, quest’ultimo, seguito alla scelta di Silvio Berlusconi che piazzò il proprio cognome sulla scheda, generando un ologramma dell’elezione diretta mai ratificata dalla Costituzione, come ben sappiamo. E così adesso, scopriamo che dopo la disfatta di Renzi al referendum, oltre che all’ospedale le liste d’attesa ci sono pure alla Suprema Corte.
Sono mesi che i giudici tengono nel cassetto la legge elettorale contestata, l’Italicum, e a poche ore dalla débâcle del governo, nel pieno della malattia cronica della democrazia, anziché far passare davanti il paziente moribondo, in ogni modo, già in preda al virus dilaniante del populismo, pensano bene di irritarsi delle critiche e farsi Natale, Capodanno, Epifania prima di fissare la Tac che potrebbe salvarci la vita. Due mesi di bufera politica.
Come dobbiamo noi, invece, dimostrare agli italiani che è stato compreso il messaggio profondo delle urne e tentare, così, di rimettere pace fra popolo e politica, armonia fra Costituzione formale e materiale? In un modo: portando il paziente in sala operatoria, andando a votare, esigenza democratica più che politica se vogliamo completare il percorso referendario.
Lo dice la Costituzione? No. Colei che nessuno muove, nessuno sfiorerà più dopo la figuraccia referendaria dei rottamatori, rottamati un po’ dalla “magna” Carta e un po’ dalla politica che “magna”, pone una semplice domanda all’elettore: tu chi sei? Ogni partito, movimento, coalizione risponde durante la campagna elettorale e il cittadino sceglie chi gli somiglia, attende l’esito delle urne e comprende, seggi alla mano, quale coalizione di governo (regalata negli anni dalle diverse leggi elettorali, per natura imperfette, cui diamo la colpa di tutto) esprimerà il capo di palazzo Chigi.
Ma se la Costituzione che abbiamo difeso e in sostanza rifirmato con la vittoria del No ci dice questo, perché in giro c’è la sensazione che un governo istituzional-tecnico sia una sciagura? Perché, nel frattempo, la crisi del sistema partitico, la nostalgia di un grande ieri, i movimentismi liquidi, la democrazia diretta, la crisi economica, le famiglie sfiancate hanno smesso di partecipare al voto chiedendosi “chi sei”, ma - come preconizzò Eugenio Montale, visionario ben più di un sondaggista - oggi l’Italia al voto è il paese di ciò “che non siamo” e di ciò “che non vogliamo”. Il suffragio anti-Renzi né è la prova. Così come lo stesso 40 per cento totalizzato dall’ormai ex premier, è la dimostrazione di questo rovesciamento. Perché quei voti non sono tutti suoi, non sono del Pd, ma sono di cittadini che hanno voluto dire - pur minoranza - che non erano parte del resto, del fronte del No. E che ora vogliono parlare tanto quanto gli altri.
Non auspichiamo, dunque, il voto perché interessi a Renzi, Salvini o Grillo. Ma per la ragione opposta: va chiuso il vulnus che aprì il governo di Mario Monti (dopo mesi di anestesia totale in cui trattavamo il professore come una specie di guru infallibile), che proseguì con Enrico Letta (jolly scelto da Napolitano dopo le politiche finite in pareggio) e ora culmina con Renzi (#enricostaisereno) cui l’Italia non perdona tante cose, giuste o meno giuste, ma del quale non dimenticherà l’asserzione “mai al governo senza elezioni”. Quando poi accettò l’incarico con una manovra di Palazzo e di partito. Va chiuso con una Costituzione che, per sua natura, non sarebbe fatta per chiuderlo, ma per tenerlo aperto il più possibile.
Per non allargare la ferita fra Palazzo e piazza, se non vogliamo un’altra campagna elettorale costruita solo sugli anti-testimonial, su chi “non siamo”, sulla negazione di chi non la pensa come noi, costituzionalmente legittimo ma politicamente incapace di generare progetti di lunga durata, dobbiamo dare la parola agli italiani. Il prima possibile.
Fonte: L'Espresso
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