di Antonio Floridia
Ma il «ritorno al proporzionale» è davvero una iattura, un’altra delle catastrofiche conseguenze del referendum, come sostengono pigramente alcuni commenti che ripercorrono i peggiori luoghi comuni del recente passato? Nulla di tutto questo: tornare a votare con una legge elettorale proporzionale si configura oramai come una condizione, necessaria anche se certo non sufficiente, perché si possa sperare di porre un argine alla crisi della democrazia italiana. Non solo: tornare al voto con un sistema proporzionale si rivela, a ben guardare, come la risposta più saggia alla situazione creatasi come conseguenza dell’avventurismo politico di Renzi. Le ragioni che depongono a favore di questa scelta sono molteplici e si possono riassumere così: ridare la parola alla politica.
Un sistema proporzionale permetterebbe di orientare il conflitto politico lungo l’asse destra-sinistra, senza comprimere le reali articolazioni della cultura politica degli italiani e affidando agli elettori la responsabilità di indicare il peso relativo delle diverse aree politiche.
E siccome siamo (e per fortuna siamo rimasti) una democrazia parlamentare, occorre finalmente «liberare» il discorso pubblico da un imbarbarimento politico e lessicale: non si può spacciare come «inciucio» ogni possibile, e legittima, mediazione parlamentare post-elettorale.
Spetta al confronto politico, e alla campagna elettorale, chiarire di fronte ai cittadini quali siano le possibili compatibilità programmatiche tra le diverse forze. Non sarebbe già solo questo un effetto salutare, rispetto ad un dibattito politico giocato tutto sull’asse sistema/anti-sistema, o su una venefica personalizzazione della competizione?
MA DIRE «PROPORZIONALE», in sé, può voler dire tutto e nulla. Ci possono essere diverse varianti e soluzioni; ma vi è una condizione essenziale:questi benefici effetti potranno dispiegarsi solo in presenza di un sistema che preveda una soglia di accesso fissata al 4%, non aggirabile in alcun modo, in modo da scoraggiare la polverizzazione della offerta elettorale e costruire una rappresentanza parlamentare articolata, ma non frammentata.
E ciò basta a smentire i profeti di sventura che temono il trionfo dei poteri di veto dei piccoli gruppi (che, anzi, trovano il più ampio spazio proprio con i sistemi che prevedono il «premio» di coalizione).
DARE VOCE AGLI ELETTORI, senza deformare la rappresentanza delle loro idee, è anche un modo per tornare a legittimare il ruolo politico dei singoli eletti, ricucire una frattura drammatica, tornare ad eleggere «dal basso», nei famosi «territori», chi ci rappresenta. Ma è anche un modo per responsabilizzare gli elettori: chiamati a dichiarare in quali idee si riconoscono e da chi vogliono essere rappresentati, non soltanto a votare contro sapendo che un qualche «vincitore» ci sarà comunque, «la sera delle elezioni».
Ma naturalmente, l’obiezione principale di chi agita lo spauracchio del «ritorno al proporzionale» riguarda i rischi di ingovernabilità.
Qui, si può rispondere in due modi: in una fase di crisi acuta come quella che viviamo non ci si può sorprendere che esista questo rischio; ma, in ogni caso, proprio perché governare oggi è questione tremendamente spinosa, è davvero illusorio che lo si possa fare senza avere un consenso reale alle spalle.
DI PIÙ, È ILLUSORIO, e foriero di ulteriori fratture, pensare che si possa ovviare ricorrendo ad un qualche marchingegno elettorale che produca «maggioranze» fittizie. Prima o poi, come si è visto, se ne paga il conto, e questo modo di surrogare il consenso reale si scontra con la durezza dei fatti.
MA SI PUÒ RISPONDERE anche su un piano empirico. È del tutto arbitrario dedurre dalle ultime elezioni, o dall’ultimo sondaggio, gli effetti che produrrebbe una competizione su base proporzionale. Il referendum conferma un dato che già emergeva dalle elezioni degli anni scorsi: l’estrema volatilità dell’elettorato, l’entità dei passaggi dal voto al non-voto e viceversa, l’indebolirsi dei legami di appartenenza (anche per questo è un puro vaneggiamento pensare di «intestarsi» il 40%).
Un sistema elettorale non è solo un meccanismo che trasforma i voti in seggi: è un sistema che condiziona anche le logiche di comportamento degli elettori. E quindi è del tutto impossibile prevedere oggi quali effetti produrrebbe un modello diverso di competizione, o cosa comporterebbe, ad esempio, il fatto che gli elettori possano tornare a scegliere il «proprio» parlamentare, su una base territoriale ristretta.
QUESTA INCERTEZZA, questo «velo d’ignoranza», potrebbe rivelarsi una buona premessa per fare una decente legge elettorale. Le riforme elettorali sono un gioco strategico, in cui ciascun attore, inevitabilmente, nutre delle aspettative e cerca di individuare le proprie convenienze, ottimali o sub-ottimali. Ma, se l’incertezza domina, ciascun giocatore è indotto a ripiegare su una linea più prudente.
Gli effetti perversi e imprevisti sono sempre dietro l’angolo (Italicum docet) e questo può rendere possibili convergenze ragionevoli. Nel nostro caso, un sistema proporzionale, con soglia al 4%, potrebbe essere una soluzione soddisfacente per molti. E potrebbe avere effetti positivi per il sistema politico nel suo complesso.
Ma ciò comporta che sia battuto il partito dell’avventura e del risentimento, evitando una corsa dissennata alle elezioni; che, dopo l’approvazione di una legge, ci siano alcuni mesi per poter riorganizzare le forze in campo e le basi della competizione; e che, tra le forze politiche, torni un qualche lume di ragionevolezza, riflettendo seriamente su ciò che è veramente necessario per salvare il paese e la democrazia.
Fonte: Il manifesto
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