di Riccardo Petrella
Le notizie sulla crescita delle ineguaglianze e degi impoveriti nel mondo sono diventate un ritornello cerimoniale. In Italia la raffica dei dati sulla devastazione sociale in corso è stata molto nutrita in questi ultimi giorni di «bilanci annuali». Mi riferisco al rapporto o dell’Istat («Condizioni di vita e reddito 2015») e al rapporto 2016 di Save the Children «Sconfiggere la povertà educativa. Fino all’ultimo bambino», diffusi entrambi all’inizio di questa settimana. Il 28,7% delle le persone residenti in Italia è in stato di povertà o esclusione sociale, in aumento rispetto al 2014. Mica poco per il settimo paese più ricco del pianeta.
La quota delle persone impoverite sale al 48,3% (da 39,4%) se si tratta di coppie con tre o più figli e raggiunge il 51,2% (da 42,8%) nelle famiglie con tre o più minori; i livelli d’impoverimento sono superiori alla media nazionale in tutte le regioni del Mezzogiorno, con valori più elevati in Sicilia (55,4%), Puglia (47,8%) e Campania (46,1%). Quattro individui su dieci sono impoveriti in Sicilia, tre su dieci in Campania, Calabria, Puglia e Basilicata. Se nei paesi dell’Unione europea (più Islanda e Norvegia) oltre 26 milioni di bambini sono in stato d’impoverimento, in Italia, la percentuale tocca il 32% (contro il 28% in Ue). Alla radice dell’impoverimento e dell’esclusione sociale,ricorda Save the Children per l’ennesima volta, c’è la disuguaglianza. «Il 10% delle famiglie più ricche in Europa attualmente guadagna il 31% del reddito totale e possiede più del 50% della ricchezza totale, e il divario tra ricchi e poveri sta aumentando».
Si tratta di processi strutturali, non contingenti. Ebbene quali e dove sono le classi dirigenti europee che hanno dato e danno realmente la priorità alla strategia dello sradicamento dei fattori strutturali dell’impoverimento e dell’esclusione sociale?
Per cecità legata ai loro dogmatismi ideologici e per chiaro obiettivo di difesa dei loro interessi di classe, i dirigenti del mondo del business e della finanza, della tecnocrazia e del mondo della politica continuano con pervicacia ad applicare scelte e ad adottare misure il cui effetto principale, risultato indiscusso negli ultimi quaranta anni, è stato quello di alimentare e rafforzare la crescita delle ineguaglianza di reddito e dell’esclusione.
La loro formula trita e ritrita non è cambiata: meno tasse sui ceti medio-bassi e incentivi fiscali per i ceti medio-alti, più investimenti in infrastrutture (informatiche, energetiche, trasporti…), più libertà alle imprese (riduzione dei vincoli, autocertificazione, liberalizzazione del commercio e degli investimenti…), piccole porzioni di «redistribuzione» di reddito, ad hoc, di tipo assistenziale, sovente di natura elettoralistica. Il tutto allo scopo prioritario di favorire la crescita economica, la competitività internazionale e l’uso efficace ed efficiente delle risorse del pianeta.
In termini di rendimento finanziario, la riduzione delle tasse, anche quando ha indotto un modesto aumento dei consumi stimolando così la crescita della produzione e degli investimenti, si è tradotta nella capacità dei detentori di capitale di appropriarsi della parte più grande e consistente della ricchezza prodotta, contribuendo cosi all’aumento della forbice tra redditi da lavoro e redditi da capitale.
Allo stesso risultato si è giunti con le misure in favore degli investimenti nelle infrastrutture produttive e commerciali in supporto delle attività delle imprese private e privatizzabili, anziché nelle infrastrutture per il benessere socioeconomico di tutti, quali scuole, ospedali, asili infantil e servizi alle persone d’interesse generale pubblico. La ricchezza da essi creata è andata utlerioremente a remunerare il capitale dei gruppi sociali a reddito medioalto. Inoltre, le politiche di austerità, poste sotto il controllo di banche centrali come la Bce (politicamente indipendenti dai poteri pubblici eletti) e valutate da agenzie finanziarie private mondiali (le agenzie di rating), hanno considerevolmente avvantaggiato le classi più ricche. Ciò è stato inevitabile in un contesto in cui, da un lato, l’imposizione dell’equilibrio di bilancio ha fatto si che spese pubbliche e sociali siano contabilizzate e quindi «da ridurre» (quelle militari ne sono escluse) e, dall’altro lato, la legalizzazione dell’evasione fiscale (paradisi fiscali, segreto bancario…) e l’esaltazione della finanza speculativa (si pensi alla finanza algoritmica, al millesimo di secondo) hanno condotto a un massiccio trasferimento di reddito nelle mani dei già ricchi. In confronto, le bricioline redistributive (80, 100 euro una tantum o le carte alimentari…) in favore dei più «bisognosi» costituiscono una forma vergognosa di assistenza caritatevole.
Non è un caso che il nuovo segretario al tesoro degli Usa, Steven Mnuchin, scelto da Trump, ha reso noto i tre punti chiavi del suo programma per ridare forza e fiducia all’economia: meno tasse, più investimenti in infrastrutture, più libertà alla finanza. E non a caso, gli Usa continueranno a figurare al primo posto della classifica nell’indice d’ineguaglianza sociale fra i paesi più ricchi al mondo. La verità è che le disuguaglianze non saranno ridotte dalla crescita del Pil perché il Pil che cresce secondo i canoni dell’economia dominante è, invece, il fattore strutturale chiave della creazione delle disuguaglianze.
Così è del tutto irresponsabile da parte di Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria, affermare che per gli imprenditori gli obiettivi della crescita e della competitività restano centrali (Corriere della Sera del 6 dicembre). Altro che riforma dell’Italia. Business as usual. Che cecità.
Fonte: il manifesto
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