di Andrea Colombo
A metà pomeriggio Paolo Gentiloni è già con un piede a palazzo Chigi. Poi spunta un ostacolo. Il Colle insiste perché il successore di Renzi sia il ministro dell’Economia Padoan. Le considerazioni che motivano il capo dello Stato sono chiare: si tratta dello stesso vento europeo che ha caratterizzato tutta la giornata di ieri e impresso una brusca accelerazione alla risoluzione della crisi, cioè la minaccia che grava sull’intero sistema bancario, tanto più impellente dopo che la Bce ha rifiutato il rinvio della ricapitalizzazione Mps.
Impossibile però dire con quanta determinazione Mattarella intenda sostenere la sua opzione. Renzi di certo fa muro. L’idea di un premier senza partito come Padoan e con alle spalle l’incarico di consigliere economico della Fondazione Italianieuropei sia con Amato che con D’Alema lo spaventa troppo.
Gentiloni resta così il superfavorito e, salvo molto improbabili irrigidimenti del Colle, sarà il nuovo premier.
Al risveglio, ieri, Renzi accarezzava ancora il miraggio di un reincarico che però non poteva chiedere. L’unica via sarebbe stata un ingarbugliarsi della crisi tale da farlo «richiamare in servizio» e da permettergli di accettare solo «in nome del pubblico interesse».
Era un sentiero strettissimo: nelle consultazioni il presidente ha infatti trovato modo di definire del tutto infondate le notizie che lo volevano deciso a insistere per il ritorno di Renzi e anche di spiegare che un Renzi-bis sarebbe stato «divisivo» e avrebbe complicata invece di semplificarla la ricerca di una legge elettorale. Poi è arrivata la bomba Mps e anche le ultime speranze di Renzi sono scomparse.
È così partito un vorticoso giro di incontri a Palazzo Chigi, con Padoan, Gentiloni, Martina, Orfini, e di telefonate, con Franceschini e Delrio.
Sul tavolo non più la scelta del primo ministro ma direttamente la definizione dei ministri e dei tempi del varo.
L’idea è quella di un governo quasi fotocopia, con poche sostituzioni, probabilmente quella della Lorenzin alla Pubblica istruzione, qualche uscita, in particolare quella di Maria Elena Boschi il cui ministero non ha più ragione di esistere, e la riconferma dei ministri principali: Padoan, Orlando, Franceschini, Delrio.
Soprattutto però a Renzi preme che resti al suo posto Luca Lotti: in tempo di nomine vuole mantenere la presa salda. Nel tardo pomeriggio il ministro degli Esteri è poi tornato a palazzo Chigi, quasi a ricevere materialmente la scelta del dimissionario.
Anche sui tempi Renzi è tassativo. Gentiloni dovrebbe far nascere un governo con la data di scadenza: in tempo per votare entro il 15 giugno. In realtà più che una vera road map, quella squadernata a palazzo Chigi ieri è una lista di desiderata e forse di chimere.
Con Mattarella fermo nella decisione di non sciogliere la legislatura prima che sia stata varata una vera legge elettorale e con una tempesta perfetta che minaccia il sistema finanziario, senza contare la comprensibile resistenza dei parlamentari a tornarsene a casa, l’idea di fissare in anticipo una data certa per le elezioni rivela solo quanto grave sia la sindrome di onnipotenza di cui soffre Matteo Renzi.
«Il problema – dicono neppure più troppo sottovoce nei gruppi parlamentari – è che non ha capito di aver perso il referendum. Pensa di averlo vinto e si comporta di conseguenza».
La stessa composizione del governo potrebbe rivelarsi più ostica del previsto. Se Gentiloni, considerato vicinissimo a Renzi, sarà premier, l’idea di accostargli come sottosegretario un altro renziano a prova di bomba come Luca Lotti potrebbe incontrare qualche ostacolo, tanto più che nel nuovo quadro politico delineatosi dopo il referendum Renzi non potrà più comportarsi come il padrone assoluto del Parlamento e del Paese quale di fatto è stato per mille giorni.
Oggi si concluderanno le consultazioni, entro domani l’incarico.
Tra i colloqui che in giornata si susseguiranno sul Colle due sono centrali: quello con Sinistra italiana e quello con Forza Italia, la cui delegazione sarà guidata da Berlusconi.
Tutti gli altri chiederanno infatti elezioni subito e, almeno in prima battuta, rifiuteranno di sedersi al tavolo della legge elettorale. Il dialogo inizierà dunque tra i partiti di maggioranza, la sinistra e soprattutto il partito azzurro. Ma non è affatto escluso che, dopo aver portato a termine la sceneggiata di rito, M5S decida invece di dire la sua in materia di legge elettorale. Si tratterebbe di un passaggio essenziale, anche se il ritorno a un sistema proporzionale, per quanto temperato e corretto, sembra sia davvero l’unica via percorribile.
Fi, però, dovrà dire qualcosa in più. Nessun dubbio sul rifiuto del Cavaliere a entrare in una maggioranza. Ma certamente Mattarella cercherà di strappargli almeno l’impegno a fare un’opposizione «responsabile». O morbida che dir si voglia.
Fonte: Il manifesto
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