di Roberto Salerno
La vittoria del “NO” al referendum ha avuto una lettura prevalente: è il successo di Grillo e Salvini e segna il definitivo trionfo del populismo in Italia. Così come in Gran Bretagna il Leave e negli USA Trump hanno certificato un immaginario trionfo del populismo, agevolato dal voto operaio, in Italia una maggioranza, identificata qui come il “ceto medio impoverito” di concerto con una classe operaia incanaglita e incapace di comprendere lo spirito, precario, del tempo, avrebbe trascinato il Paese in una spirale che avrà come sbocco un governo Grillo (magari con Salvini, anche se non si capisce come).
Uno sbocco comunque reazionario e questo, dicono, sarà il prodotto (e la responsabilità) di chi ancora illude larghi tratti della popolazione che le garanzie novecentesche, la stabilità del “secolo del lavoro” sia ancora possibile. Qualcosa del genere si era visto appunto dopo l’elezione di Trump e il voto sulla Brexit.
Uno sbocco comunque reazionario e questo, dicono, sarà il prodotto (e la responsabilità) di chi ancora illude larghi tratti della popolazione che le garanzie novecentesche, la stabilità del “secolo del lavoro” sia ancora possibile. Qualcosa del genere si era visto appunto dopo l’elezione di Trump e il voto sulla Brexit.
Subito dopo l’imprevista – più o meno – vittoria di Trump alle elezioni statunitensi si è immediatamente alzata la canea diretta verso il solito tradimento della classe operaia, che avrebbe votato l'impresentabile tycoon. Se la maggior parte di queste sbavanti accuse erano – e sono – semplici tentativi di deresponsabilizzazione di quella che incredibilmente viene a volte definita “sinistra” di governo, alcune di esse hanno fatto presa anche su insospettabili e disinteressati commentatori.
La questione è abbastanza nota ed è ormai diventata globale (forse in ossequio alla globalizzazione). In buona sostanza si ritiene che la classe operaia – nonostante da più di un decennio le politiche delle compagini governative che continuano a definirsi, se non di sinistra, “non di destra” abbiano massacrato le fasce più deboli della società – invece di votare per chi questo massacro ha perpetuato e promette di perpetuare, si sposti sempre più a destra, oltrepassando i confini del razzismo. E sia il voto a destra, sia il voto su singole – anche se rilevanti – questioni come la Brexit sarebbero tutti da mettere nello stesso calderone, quello del tradimento – alcuni si spingono fino all’irredimibilità – della classe operaia.
Senza voler troppo entrare nel merito della vicenda ci sembra che almeno due elementi vadano quanto meno problematizzati, prima ancora di esprimere una sommessa opinione.
La prima riguarda la non banale questione di cosa si parla quando si parla di classe operaia. La seconda se sia lecito fare di tutta le elezioni un fascio: se davvero votare Brexit sia la stessa cosa che votare Trump.
Cercheremo alla fine di dire qualcosa sui dati che abbiamo a disposizione.
Di cosa parliamo quando parliamo di Classe Operaia?
Esistono tante classi operaie quanto sono i commentatori che la evocano. A volte emerge l'idea della fascia di reddito (quelli sotto i 50 mila $ annui nel caso statunitense), ma molto più spesso si è più imprecisi. Si va dagli operai che ancora lavorano nelle fabbriche o comunque hanno a che fare con il settore manufatturiero a quelli della logistica; dai precari generici che fanno tre lavori per avere mezzo salario decente a quelli sottoqualificati; dai lavoratori dei fast food a quelli delle pulizie e all’intero terziario “scoppiato”, forse precariato intellettuale compreso. Molti lamentano che, ad esempio, non abbia senso includere l’agente commerciale nella “classe”, facendo saltare l’idea che la soglia del reddito sia quella determinante per l’appartenenza o meno alla classe stessa.
Come si può ben comprendere, questa non è una curiosità e basta. Perché il passaggio da questa identificazione a “chi ha votato chi” diventa un po’ surreale. Tant’è che giustamente a chi dice “in quella zona a redditi medi sotto i 50 si è votato Trump” si contrappone chi invita a guardare l’indice di Gini o chi avverte che il dato scarno della media può far prendere cantonate e magari non sarebbe male accompagnarlo con un’analisi che spieghi come si distribuiscano i valori attorno alla media (una popolazione in cui in due guadagnano 100 e in due guadagnano 10 non è la stessa di una in cui tutti guadagnano intorno ai 50). Insomma dai dati territoriali l’impressione è che sia difficilissimo far discendere troppi ragionamenti sul “comportamento della classe operaia”. Il problema (uno dei) è non sapere bene di chi stiamo parlando – ma solo a grandi linee – e quindi perché utilizzare il concetto di Working Class? Non avrebbe senso – fino a quando almeno non ci si mette d'accordo – scorporare il voto dei disoccupati da quello dei lavoratori della logistica? Dei precari intellettuali da quello dei precari da call center?
Votare Brexit e votare Trump.
Forse legata a queste nostre difficoltà c’è questa tendenza a identificare le due questioni, fino addirittura ad arrivare a dire che la base elettorale dei due voti è la stessa, sociologicamente parlando. Subito dopo il referendum furono pubblicate tutta una serie di mappe colorate che partivano da “i giovani”, “la Scozia”, “le regioni del nord” e arrivavano al quartiere di Manchester. La disputa era la stessa: per chi ha votato la Working Class? All’interno di analisi abbastanza sofisticate non è raro trovare una curiosa “dissonanza” nella descrizione del voto dei quartieri di Londra: quelli che hanno votato Remain sarebbero quartieri di alta immigrazione e di Working Class. Il punto però è che il voto Leave si è imposto anche in quartieri che hanno le stesse caratteristiche. In questi casi alcuni analisti virano verso una spiegazione “altra”, più o meno in buona fede. Si dice ad esempio che “sì, è Working Class, ma lì è dove aveva sfondato Farage”. Il punto è che una precisazione del genere, ad essere rigorosi, svilisce l’idea che il voto sia “spiegato” dall’appartenenza di classe. Che è quello che in effetti hanno detto in molti, tra cui Torsten Bell, che ha concluso che non è pensabile trovare una qualche forma di relazione tra l’appartenenza di classe e il voto sulla Brexit.
In un contesto simile ancorare il voto operaio ad un comportamento univoco – fosse il Remain o il Leave – ha poco senso. Dire “ma lì c’era la roccaforte conservatrice” equivale a dire “ma là NON c’era la roccaforte conservatrice”. Si tratta di una trasformazione della variabile esplicativa: non è più “l’operaio alle prese con una variazione nel suo tenore di vita” che spiega il voto; ma “l’operaio alle prese con una variazione nel suo tenore di vita E che vota X”.
A margine di questo sia permesso di dire che mettere insieme una scelta come quella della Brexit – che PUÒ essere sbagliata – con quella di Trump, che È un voto dato oggettivamente ad un razzista, non è il massimo della chiarezza e confonde ulteriormente ogni tentativo di analisi non gridata. A sinistra le convinzioni sulla questione dell’Euro, da una parte, ma soprattutto la compagnia con cui si finisce col trovarsi se appena appena si ha voglia di affrontare la questione, dall’altra, offuscano non poco. Una cosa è scegliere di andarsene dall’Europa e un’altra è votare Trump.
Concludendo. De te fabula narratur
Tutto questo considerato, la sensazione (i dati che in genere si hanno sottomano non sono mai soddisfacenti) è che la Working Class che ha votato Trump sia numericamente più consistente della Working Classche ha votato Clinton. Detto altrimenti, sembra che alla fine il gruppo socialdemocratico abbia raggiunto una certa omogeneità, di classe appunto. Il che non significa che l’idraulico nero che vota Clinton non esista, ma che il suo gruppo, la sua classe, è numericamente meno rilevante di quella dell’operaio bianco (e nero) che vota Trump. Stiamo parlando sempre di due minoranze – visto che la cosa pacifica è che la maggioranza sta a casa – ma fatto 100 i votanti della “Working Class” (insistiamo: questo 100 è una frazione piccola della “Working Class” totale) la sensazione è che 85 siano da Trump e 15 da Clinton (a spanne; le % sono inventate, ovviamente: è solo per dire “tanto a poco”).
Quindi mentre sarebbe sacrificabile l’idea di parlare a quei “pochi” clintoniani – con la speranza/pronostico che alla fine anche questi 15 si assottiglieranno e resteranno a casa, in quanto più consapevoli – le forze vanno indirizzate verso gli operai trumpiani, magari non foss’altro che per far rimanere a casa anche loro, unico orizzonte tattico praticabile con questi sistemi elettorali e con questi rapporti di forza.
Forse vale la pena ribadirlo ulteriormente. Il comportamento elettorale prevalente della “Working Class” è l’astensione. È stata la perdita dei voti di Clinton rispetto ad Obama la vera causa della sconfitta dei democratici. Questi voti NON si sono trasferiti su Trump. Le riflessioni di cui sopra valgono per una minoranza di Working Class, non certo per la Working Class nel suo complesso, qualsiasi cosa si intenda con questo termine.
Ad occhio anche in Italia succede una cosa del genere ed era sin troppo semplice prevedere che si sarebbe assistito a questo “dibattito” a partire dal 5 dicembre, con il “SÌ” come Clinton e Remain e il “NO” letto come il voto a Trump e al Leave. Del resto, col blocco che rappresenta gli elettori del PD una sinistra appena appena decorosa non ha nulla in comune, ed è quasi fisiologico che non venga neanche la voglia di andare a parlargli. Cosa che non significa che non ci sia anche nel PD qualche idraulico nero. Con gli elettori di Grillo o di Salvini, che sono classe in sé, invece sì.
Questa narrazione è impermeabile a qualsiasi tipo di analisi, ma non bisogna credere che sia un problema di competenza. Il racconto dell’elettorato è lotta politica e serve a costruire una rappresentazione consolatoria. Così se i giovani votano Remain sono l’esempio di come le nuove generazioni vogliano il cambiamento; ma se votano “NO” sono l’esempio di una gioventù ignorante ed egoistica ed il risultato di un sistema formativo da stravolgere. Specularmente gli anziani che votano “SÌ” incarnerebbero la saggezza e quelli che votano Leave bloccano il futuro del Paese.
Non c’è da sorridere su questo, perché il senso comune costruito dalla grande stampa passa da queste contraddizioni, rivolte ad un pubblico che in genere utilizza solo i quotidiani – e magari qualche patinato periodico degli stessi: è incredibile la rozzezza di quello de “Il Sole 24 ore” – e si sorprende che Renzi sia così odiato. Renzi da due anni non riesce a fare un comizio in una qualsiasi piazza d’Italia senza la protezione di poliziotti e carabinieri, circa 150 volte lui o membri del suo governo erano stati costretti ad annullare gli eventi di cui erano protagonisti: ma questo un lettore di “Repubblica” o “Stampa” o “Corriere della Sera” non l’ha mai saputo.
In questo senso – e solo in questo senso – tra due baratri meglio questo. Non è né “tanto meglio tanto peggio” né “il male minore”. È solo cercare di trovare un qualche vantaggio in una situazione oggettivamente disperata.
In fondo uno dei problemi della pratica politica di questi anni è stato quello di dover opporsi a compagini governative con un passato più o meno presentabile e con un presente ambiguo, prontissimo a concedere aperture sui diritti civili – o quantomeno a fingerne – e spietato sul versante dei diritti sociali ed economici. Affrontare un nemico finalmente senza maschera non è detto che sia un disastro peggiore.
Fonte: Palermo-grad.com
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