di Antonio Sciotto
Mentre la politica dopo il referendum costituzionale si avvita in una crisi dai tempi incerti, il mondo delle relazioni industriali ha ripreso invece a dialogare: l’ultima tappa il faccia a faccia di mercoledì scorso tra il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia e i tre segretari di Cgil, Cisl e Uil sul «Patto per la fabbrica», ma il vero snodo è stato il contratto dei metalmeccanici. Unitario, è piaciuto perfino a due fieri avversari di Fiom e Cgil come Pietro Ichino e Maurizio Sacconi, perché apre in maniera decisa a welfare e prestazioni integrative e insieme demanda tutti gli aumenti extra inflazione ad aziende e territori.
IL CONTRATTO PERÒ dentro la Cgil ha trovato delle voci critiche: come Alessandro Genovesi ed Emilio Miceli, segretari generali di Fillea e Filctem, a loro volta impegnati sui tavoli degli edili, tessili ed elettrici. Ma anche dall’interno della Fiom si sono alzate diverse voci contrarie, e non solo da parte della minoranza tradizionalmente ostile al numero uno Maurizio Landini. Due importanti direttivi territoriali – Genova e Trieste – hanno bocciato l’intesa con Federmeccanica, avallata invece con voto bulgaro dal Comitato centrale (cioè quello nazionale) della Fiom.
Trieste lo ha fatto dopo che da Roma era stata inviata una lettera a tutte le strutture per impedire che l’intesa fosse messa al voto nei territori, e con il mandato imperativo a rappresentare nelle assemblee che si svolgeranno il 19, 20 e 21 dicembre (con relativo referendum) esclusivamente la posizione espressa dal Comitato centrale. La tensione è tale che martedì verrà ripetuto un nuovo direttivo nella città giuliana, alla presenza questa volta dello stesso Landini.
Contro la «centralizzazione» imposta da Roma si sono mobilitati la minoranza interna – Il sindacato è un’altra cosa – e un gruppo di delegati metalmeccanici che si è riunito martedì scorso a Firenze: da parte loro l’invito è a esprimersi per il No all’accordo.
L’INTESA PREVEDE un importo complessivo di erogazione da parte dell’impresa di 92,68 euro: somma che la Fim Cisl ha definito «beneficio economico per ciascun lavoratore». In effetti una parte – quasi la metà, circa 41 euro – non andrà cash in busta paga, ma verrà erogata sotto forma di welfare, formazione, sanità e previdenza integrative. Permettendo alle stesse aziende di risparmiare sulla tassazione, grazie agli sgravi inseriti anche nell’ultima legge di Bilancio.
Il resto, oltre 51 euro, andranno in busta paga: per tutti, avendo sbaragliato così l’iniziale proposta di Federmeccanica che aveva previsto aumenti solo per le fasce di salario più basse. Ma per il momento rappresentano solo un calcolo previsionale: perché gli incrementi verranno erogati nel giugno di ogni anno in base al calcolo dell’inflazione dell’anno precedente (giugno 2017 per l’intero 2016 ad esempio), una sorta di scala mobile ex post. E si tratta esclusivamente di recupero dell’inflazione. L’1% di Pil (o lo 0,9%, le cifre sono ballerine) del 2016, l’andamento dello stesso settore con eventuali margini di guadagno acquisiti dalle imprese, nel conteggio nazionale non entreranno.
SONO VALORI PERSI? No, ma bisognerà guadagnarseli nella contrattazione territoriale o di azienda: realizzando così la richiesta degli industriali di commisurare strettamente gli aumenti alla produttività. Ma come è noto non in tutte le imprese si riesce a siglare un integrativo: siamo fermi a circa il 20%, e il contratto nazionale ha sempre fatto da ombrello per tutti.
Il contratto dei metalmeccanici riguarda 1,6 milioni di addetti, ma sia per motivazioni storiche che per l’importanza del settore nella manifattura italiana, rappresenta un benchmark per tutti gli altri comparti: l’intesa firmata il 26 novembre da Maurizio Landini, Marco Bentivogli della Fim e Rocco Palombella della Uilm con Fabio Storchi di Federmeccanica influirà certamente sul modello contrattuale che Cgil, Cisl e Uil potrebbero concordare all’interno del «Patto della Fabbrica» attualmente in discussione con Confindustria.
DA QUI LE TENSIONI, le critiche anche aperte, mosse dall’interno della Cgil. I tessili in ottobre avevano interrotto le trattative proprio sul rifiuto ad accettare il recupero dell’inflazione ex post, e ora il segretario Filctem Miceli parla di «voucherizzazione dei contratti»: «Il welfare diventa il no cash nei contratti, che pretende di sostituire progressivamente la funzione salariale con tutte le sue implicazioni, a cominciare dalla contribuzione pensionistica». «Il contratto nazionale non può diventare la sede che recepisce automaticamente l’inflazione e attua le disposizioni di legge. Così muore».
Stesse perplessità da parte del segretario degli edili Fillea, Genovesi: «Il meccanismo salariale è esclusivamente di recupero ex post e differito nel tempo, con aumenti successivi e solo eventuali sui minimi salariali legati meramente all’inflazione, con tanto di assorbimento di altre voci». Precisando che ogni settore ha la sua specificità, Genovesi dice di puntare «non solo a tutelare il potere di acquisto» ma anche a «far riconoscere elementi specifici» come «andamento di mercato, innovazione organizzativa, esportazioni, profitti e ricavi, con aumenti salariali che aiutino il rafforzamento della domanda interna».
IL DIBATTITO È APERTO, ma una parte della Fiom ha già deciso di dire No all’ipotesi siglata. Tra le ragioni: i 92 euro non sono certi; la tutela della sanità e previdenza pubbliche, indebolite dal rafforzarsi di quelle private; l’assorbibilità nell’aumento nazionale di alcuni incrementi acquisiti in azienda. Quanto alla lettera inviata da Roma, e all’impossibilità di rappresentare in assemblea alla pari le due posizioni, infine, viene ricordato lo scontro Landini-Camusso del 2014, quando la Fiom si fece baluardo della par condicio nelle assemblee sul Testo unico sulla rappresentanza e del diritto al dissenso a tutti i livelli della Cgil.
Fonte: Il manifesto
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