di Bia Sarasini
È proprio ristretta, la scena mediatica. Poco più del cono di luce di un faro su un palcoscenico. Per il resto tutto è in ombra. Dunque poco importa che abbia vinto il no, il 4 dicembre. Al centro della scena c'è sempre Matteo Renzi, il perdente, eppure ancora l'eroe di un copione che interpreta alla perfezione, compresi drammi, sbandamenti e coup de theatre. Del resto la trama è attraente. Come si perde il potere? Chi se lo prende? E, se ci si riesce, come lo si conserva?
Solo che la storia è vecchia, molto vecchia. Sparisce il popolo, spariscono i 19 milioni che hanno votato no. La straordinaria mobilitazione in cui vanno inclusi tutti, 32 milioni circa, qualunque sia stato il voto - cioè la democrazia messa in pratica, agita in piena liberà e autonomia - scompare di nuovo, nella sfilza di facce, voci, corpi. Tutti di uomini. Nel gioco delle parti. Nel gioco del potere. L'ambizione sarebbe replicare la tensioni delle migliori puntate di House of cards, purtroppo gli sceneggiatori, a cominciare dall'osannato Jim Messina, sono di più modeste capacità.
Si sa che gli eroi, per risaltare, anche e soprattutto quando perdono, ma per rialzarsi prodigiosamente, hanno bisogno del vilain. Della parte brutta, cattiva, quella che perde sul serio, senza rimedi e risarcimenti simbolici. Che non ce la farà mai. Nel copione che si ripete sulla scena italiana da più di vent'anni, da quando Berlusconi ne ha fatto l'asse della propria visione politica, il vilain è la sinistra. Che è triste, non sa godersi la vita, rancorosa, dice sempre di no. Una visione che è diventata parte integrante dei ragionamenti del Pd di Renzi. Chi altro sono stati i gufi e rosiconi, nel linguaggio di Renzi, se non la sinistra?
La cosa curiosa è che perfino davanti al risultato, davanti a un popolo che deciso di esprimersi in misura e proporzioni inaspettate, il linguaggio e il copione non cambia. Come se non fosse successo nulla, come se tutto potesse rientrare nei vecchi schemi. Vorrei essere chiara. La sinistra ha fornito nel tempo molti buoni argomenti ai detrattori. Ne cito di fondamentali: la vocazione alla divisione, la conseguente frammentazione in sigle, l'incapacità ripetuta di creare spazi comuni. Eppure tutto cambia, perfino la sinistra.
Perché non è più il tempo dei leader, delle sigle, dei narcisismi. È il tempo dei comitati, della mobilitazione ampia, di base, coesa, forte come non avveniva da anni. Certo il no ha il volto e le voci delle destre italiane. Ma chi è andato a cercare cosa ha fatto davvero, nel lavoro di base, quotidiano, il no di sinistra, il no dei comitati, dell'Anpi, della Cgil, dei movimenti? Chi ha capito che la grande manifestazione del 26 novembre, NonUnaDiMeno, contro la violenza degli uomini sulle donne, che non si è schierata sul referendum, era il segnale di un mondo nuovo che si muove, che cambia? Come indicato dalla presenza di decine di migliaia di ragazzi e ragazze, mescolati alle generazioni più adulte, come è stato il giorno dopo, il 27, con la manifestazione del no sociale, con tantissimi ragazzi e ragazze.
Ecco, ragazze e ragazzi. Se c'è una cosa che dice che c'è un'altra scena da illuminare, che la narrazione renziana è farlocca, un copione che non funziona, è il voto dei giovani. Di quelli di cui lui, Renzi, dovrebbe essere l'eroe, il rappresentante vero. Un fatto inequivocabile, citato da tutti, eppure non analizzato, non compreso. Rimane lì, a galleggiare. Eppure è semplice, nella sua durezza. I giovani, - figli, nipoti, non necessariamente biologici - vivono una vita incomprensibile agli adulti. Che non capiscono - non capiamo - cosa sia davvero la precarietà. Il non lavoro. L'incertezza. La povertà. Non guadagnare abbastanza. Anche i figli di chi sta benino. Di chi ce l'ha fatta. Loro non ce la faranno. L'aveva annunciato l'ultimo rapporto Censis, presentato qualche giorno prima del voto.
E qui si chiude il cerchio, della sinistra brutta e rancorosa. Non è più un gioco delle parti, battute che vengono ripetute giorno dopo giorni, anno dopo anno, dagli stessi protagonisti sempre più stanchi e annoiati. Non è per capricci autoreferenziali, o per ostinata vocazione contraria, che la sinistra, o come si chiamerà, non si presta ad andare in soccorso al perdente. Come ha suggerito Giuliano Pisapia, che ha bruciato con una mossa poco accorta - giocata, anche questo un copione piuttosto trito, contro la sinistra interna al Pd - la sua esperienza di bravo di sindaco di Milano. Si tratta piuttosto di necessità profonda, di ridisegnare cosa sia, questo no sociale. Coincide con la sinistra?
La sinistra di un tempo ha perso il proprio linguaggio, i punti di riferimento. Cosa è la giustizia sociale, come si diminuiscono le enormi disuguaglianze, come si redistribuisce il redito, come si crea lavoro in un'epoca in cui il lavoro sparisce? Dove si trovano le risposte? E non sono queste le domande che vengono dal no del disagio sociale? Se Marchionne è il tuo mito, non sarà strano che pensi che il Jobs Act è una grande legge moderna. E sarà bene per tutti cominciare a pensare che la sinistra, quella popolare non le piccole sigle, è in cerca di un'altra casa.
Si potrebbero fare scoperte curiose. Che una sceneggiatura che minaccia di portare sotto il cono di luce di un nuovo governo un gentile comprimario, perde colpi. Racconta una lotta per il potere che non avvince più, che si tramuta in farsa. Come ha già detto quel voto che si vuole dimenticare.
Ci vogliono facce nuove, si direbbe al cinema. O in una buona serie tv. Raccontare storie e persone nuove, non retoriche, vitali. Basta poco. Oplà. Cambiare gli schemi, accendere tutti i riflettori. E la nuova scena è illuminata.
Fonte: Huffington Post - blog dell'Autrice
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.