di Roberto Ciccarelli
Il «ghetto» nelle campagne pugliesi è un sistema concentrazionario di nuovo tipo dove una moltitudine di braccianti di ogni nazionalità arrivano e ripartono in ogni stagione della raccolta dei prodotti della terra. È un dispositivo di governo della forza lavoro gestita, in maniera opaca, ma sotto gli occhi di tutti, dal sistema produttivo e da quello criminale. Si specula sulla quota di affitto per un posto letto, sul trasporto per condurre i braccianti nelle campagne.
Il ghetto è una fabbrica dove ciascuno ha il suo ruolo: chi lavora, chi paga, chi sfrutta, chi lucra. Sono stati ideati da mediatori e caporali, per nascondere manodopera «mobile», che si muove a seconda della richiesta dei cicli produttivi stagionali, in pochi luoghi lontani dalle comunità. In Puglia sarebbero 55, sostiene il terzo rapporto sull’agricoltura e il lavoro migrante della Flai Cgil (2015). Una regione che conta su oltre 180 mila braccianti, un quinto dell’intero paese. I braccianti stranieri sono 40mila, assunti registrati, ma innumerevoli altri sono quelli che lavorano in nero. Impossibile per un bracciante straniero che guadagna 15-20 euro al giorno poter prendere una casa in affitto.
I ghetti suppliscono anche a una sistematica carenza di politiche alloggiative. I più noti sono quelli di Rignano Garganico, una zona franca dove vivono braccianti, prostitute e caporali. Fino a 800 nel «ghetto Ghana»; mille nel «ghetto dei bulgari» teatro dell’ultima tragedia.
È la parte emersa del sistema della «mediazione da lavoro (la possiamo chiamare Mafia Caporale!) che si regge sulla domanda di servizi originata dagli stessi migranti che sfrutta. È una tangente per restare in vita, per non ammalarsi, per non morire» scrivono Leonardo Palmisano e Yvan Sagnet nel libro-inchiesta «Ghetto Italia» (Fandango).
Fonte: Il manifesto
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