di Angelo Mastrandrea
Eccoli qui, gli «angeli dell’immigrazione». Cittadini comuni come Alessandra e Patrizia, di giorno avvocati e la sera a ramazzare nei bagni della mensa di Sant’Eusebio. Come Laura, studentessa al quinto anno di medicina che ha messo in piedi uno staff di dottori e infermieri per assistere le centinaia di rifugiati accampati nei giardini e all’interno della stazione Como San Giovanni, in attesa che si apra un varco verso la Svizzera, al momento una delle frontiere meno permeabili e allo stesso tempo più calde d’Europa. O come Rafael, eritreo in Italia dal 2006 con moglie e figli, che ora si trova dall’altra parte della barricata e ricambia facendo da mediatore e interprete.
Si sono mobilitati in pochi giorni, nella seconda metà di luglio. Quando gli svizzeri hanno cominciato a rispedire indietro chi tentava di passare il confine di Chiasso e Como si è ritrovata improvvisamente a fare i conti con un fenomeno fino ad allora semisconosciuto, un volontario della Caritas locale, Flavio Bogani, ha lanciato un appello alla solidarietà attraverso il web. In poche ore alla mailing list si sono iscritte più di 300 persone «delle più diverse provenienze sociali e culturali», spiega il direttore della Caritas Roberto Bernasconi: cattolici e non, di sinistra e non, da sempre impegnati in attività sociali e non, uomini e donne in egual misura, senza distinzioni d’età. La mobilitazione spontanea ha prodotto un piccolo miracolo estivo. Oltre alla mensa autogestita, tre chiese hanno aperto le loro porte per ospitare i profughi, due in città più quella storica di Rebbio guidata da don Giusto della Valle, da anni impegnata sul fronte dei migranti. Lo stesso ha fatto l’Opera Don Guanella e la Croce Rossa ha allestito un tendone. Una scuola privata ha messo a disposizione le docce, negozi e farmacie hanno donato i loro prodotti, ma soprattutto la catena della solidarietà privata ha fatto sì che ai rifugiati non mancasse nulla: generi di prima necessità, vestiti e coperte per la notte, tende, cure mediche.
La mensa
Per rendersene conto basta farsi un giro alla mensa di Sant’Eusebio, nel salotto buono di Como, a un passo dal Duomo e dal lungolago affollati di turisti. Ogni sera, all’ora consacrata dalle ultime mode all’apericena, il sacrestano Luciano apre le porte del teatro parrocchiale provvisoriamente trasformato in ristorante alle centinaia di africani ordinatamente in fila per un tavolo e un piatto caldo. È un uomo mingherlino e dal tono di voce basso, e mai si sarebbe immaginato che un giorno i drammi dell’Africa avrebbero bussato alla sua porta. «Ero abituato a raccogliere i vestiti donati alla Caritas e agli incontri della terza età», ma un mese a questa parte la sua vita ha avuto un guizzo improvviso.
Racconta Luca, un milanese che vive in un comune della provincia, tra i primi a rispondere all’appello per i volontari: «Quando abbiamo aperto la mensa era un lunedì e avevamo cibo solo fino al mercoledì, non sapevamo se saremmo riusciti ad andare avanti. Invece da allora non abbiamo saltato un solo pasto» e il deposito dei generi alimentari non langue. A oggi, oltre 500 persone si sono messe a disposizione senza chiedere nulla in cambio: fior di professionisti addetti alle pulizie senza battere ciglio, una batteria di volontari a servire le pietanze da far invidia al migliore dei catering e pensionati ai fornelli. Un’enormità per un luogo più avvezzo ad accogliere i facoltosi turisti nordeuropei che un pugno di africani in fuga dalle guerre. «Questo dimostra che l’arrivo di così tante persone bisognose di aiuto ha scosso le coscienze e che c’è ancora una città viva in grado di prendersi carico degli altri e in grado di autogovernarsi», dice Bernasconi.
A dirigere gli ingressi ci sono, insieme al sacrestano, un aitante sessantacinquenne e un ragazzo, presenze superflue perché alla mensa di Sant’Eusebio finora non si è mai verificato il pur minimo incidente. I commensali provengono quasi tutti dal Corno d’Africa: Sudan, Eritrea, Somalia, «in particolare stanno arrivando molti oromo in fuga dalla repressione governativa in Etiopia», spiega Rafael. Ci sono famiglie intere, tanti giovanissimi, maschi e donne, e quasi la metà sono minori non accompagnati, a volte meno che adolescenti. Il loro obiettivo è in particolare la Svizzera: sperano che prima o poi rientreranno nelle quote di rifugiati previste dal paese elvetico. Altri vogliono andare in Germania per ricongiungersi ai familiari o perché nel passaparola migrante la nuova meta è la patria di Angela Merkel. In Italia non vuole rimanere nessuno: non la ritengono un posto in cui possono costruirsi un futuro. «Quando chiediamo loro se vogliono andare in un centro d’accoglienza, di solito ci rispondono di no e, se accettano, dopo un po’ scappano per tornare alla stazione», dice Bernasconi. Per questo sta suscitando perplessità la decisione del Viminale di allestire un campo container in un ex deposito di auto: c’è chi pensa che nascerà un ghetto e chi invece teme che buona parte degli africani vi rimarrà ben poco. «Io voglio andare a Ginevra e prima o poi ci riuscirò», afferma un migrante con convinzione.
La frontiera è blindata
In Svizzera al momento è però praticamente impossibile entrare senza essere scoperti e rimandati indietro, non senza prima aver subito perquisizioni corporali e qualche ulteriore umiliazione dal chiaro intento dissuasivo. Hanno fatto il giro del mondo le immagini dei tre africani nascosti sotto i sedili di un Eurocity diretto a Basilea, ma si tratta di un’eccezione. I varchi sono controllati anche con i droni e al massimo qualcuno è riuscito ad arrivare fino a Bellinzona per essere poi respinto. Per chi dovesse essere accolto, la prospettiva è di finire nel previsto centro d’accoglienza di Rancate, in Ticino. Pure al di là del confine si è messa in moto una catena di solidarietà: ogni mattina i volontari dell’associazione Firdaus varcano il confine per portare vestiti e assicurare il pranzo ai profughi. Transfrontalieri al contrario, per solidarietà.
Fonte: il manifesto
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