di Mazzetta
Tira moltissimo il dibattito sul burkini (o burqini), il costume da bagno integrale amato da alcune donne musulmane, in particolare dopo che un paio d’amministrazioni locali in Francia hanno deciso di vietarne l’uso. Così in questi giorni siamo ammorbati da tanti che si sentono in dovere di dire la loro sulla questione. Tra tanti mi ha colpito l’intervista rilasciata a l’Espresso da Lorella Zanardo, che si dice femminista e di sinistra. Un’intervista infarcita di balle e castronerie che minano qualsiasi pretesa ideale o ideologica possa celarsi dietro alla conclusione alla quale perviene Zanardo, per la quale il burkini andrebbe vietato per legge.
La signora si fa forte di quella che racconta come un’esperienza diretta, avrebbe infatti provato un burkini personalmente e da lì ne avrebbe tratto le sue categoriche convinzioni, che però alla prova dei fatti risultano tanto assurde quanto riprovevoli. Non si sa che burkini abbia provato, ma quel che è certo è che Zanardo nell’intervista racconta un sacco di balle.
Per chi ancora non lo sapesse, il burkini è un capo da bagno -tecnico- simile nella forma e nella confezione a una muta da sub, ma più leggero e meno aderente, in modo da permettere alle bagnanti d’indossarlo anche in spiaggia, dove le tute in neoprene usate per le immersioni trasformerebbero le ore in riva al mare in saune insopportabili.
A dirla tutta, il mio sospetto è che Zanardo non abbia mai indossato un burkini, altrimenti certe sue buffe affermazioni non si spiegherebbero. Non sono poche le sciocchezze messe in fila nella stessa intervista, ma cercherò comunque di ripercorrerle in maniera analitica e di spiegare perché si tratti di affermazioni false, che possono essere costruite solo sulla malafede o su una clamorosa ignoranza della materia del contendere.
La prima affermazione assurda che s’incontra è la seguente: « il burkini è un capo d’abbigliamento che, come il burqa e il niqab, cela in modo pesante il corpo» ed è assurda perché burqa e niqab non celano solo il corpo, ma anche il volto. Inoltre il burkini è composto da una parte inferiore che ha la foggia dei pantaloni, non già un gonnellone che tocca terra. Una donna in burkini appare invece coperta come una donna in maglietta e pantaloni, ma a capo coperto come chi indossa un’hijab. Incidentalmente, i pantaloni sono generalmente proibiti dalla morale islamica, perché mostrano le forme e, orrore, sono considerati un travestimento ad imitare gli uomini. Tanto che nei paesi dove le autorità religiose riescono ad avere voce in capitolo sull’abbigliamento delle donne, non si vedono donne con i pantaloni. Il burkini è quindi uno strumento d’emancipazione dalla morale islamica più rigorosa, non solo perché consente alle donne musulmane di godere di mari e fiumi sentendosi a proprio agio. Ma Zanardo dice che «il mio discorso non è “intellettuale”, non è teorico. Il mio femminismo è molto pratico. Infatti parlo del burkini dopo averlo provato».
Subito dopo segue un’altra affermazione stentorea quanto evidentemente falsa: «…soprattutto posso dire che indossarlo non è frutto di una libera scelta delle donne». Affermazione smentita dalla realtà, nella quale qualche centinaio di milione di donne cinesi si veste allo stesso modo, coprendo anche il volto, semplicemente perché in Cina apprezzano l’incarnato chiaro e non vogliono abbronzarsi quando vanno al mare. Una scelta in tutta evidenza liberissima per la quale in Cina spopola quello che è stato chiamato facekini. Questo sì più simile a niqab e al burqa, perché copre anche il volto, anche se non per motivi religiosi.
Zanardo prosegue dicendo che «parlo del burkini dopo averlo provato» e dalla prova dice di averne ricavato che il burkini è anche pericoloso perché: «Quando esci dall’acqua diventa pesantissimo, e infatti molte si fanno aiutare dagli uomini perché potrebbe esserci il rischio di annegare». Questa è la frase che più fa dubitare del fatto che la prova sia stata esperita realmente, perché il tessuto tecnico con il quale sono confezionati i burkini non s’imbeve d’acqua e perché anche la logica dice che, anche se il modello provato da Zanardo fosse stato confezionato in lana, se il costume diventa pesantissimo fuori dall’acqua a quel punto non c’è alcun rischio d’annegamento. Affermazioni assurde e chiaramente esagerate che servono evidentemente da sostegno di un’opinione che molti altri appigli non ha.
Non va meglio passando a commentare l’ormai famosa immagine della pallavolista egiziana vista alle olimpiadi con addosso un hijab, il velo a coprire il capo, perché anche qui Zanardo infila una balla clamorosa dicendo che a differenza delle colleghe che giocano in mutande: «L’egiziana infatti non ha scelta, l’occidentale potrebbe anche rifiutarsi…». Peccato che la sua compagna di squadra non indossi l’hijab e che le sue colleghe egiziane impegnate in gare di nuoto, tuffi e nuoto sincronizzato abbiano indossato costumi assolutamente identici a quelli delle colleghe, occidentali e no. «L’egiziana» quindi la scelta ce l’ha eccome. Peccato inoltre che fino a pochi anni fa fosse invece la federazione internazionale della pallavolo a non lasciare alcuna scelta alle atlete: se volevi competere a livello internazionale potevi indossare solo un bikini (con il fianco non più alto di 7 centimetri), anche se faceva freddo e anche ti sentivi a disagio con le telecamere piantate sul culo allo scopo di vendere lo spettacolo ai morti di figa.
Esaurite queste falsissime premesse, Zanardo chiede poi alle donne «arabe»; e poco importa che arabe non siano, come le musulmane che provengono da paesi che arabi non sono; di «avere… rispetto per le nostre lotte, quando vivono in Italia». Una pretesa bizzarra, non solo perché tale rispetto spesso manca anche alle donne italiane, per non parlare degli uomini italiani.
Pretesa che la signora, che «io sono di sinistra, sono femminista e per le frontiere aperte, eppure difendo il diritto delle musulmane di liberarsi delle loro gabbie», vorrebbe veder rinforzata da una bella legge che dica alle donne come si devono vestire in spiaggia: «Come femminista italiana e attivista dei diritti delle donne penso che sia corretto vietare l’uso del burkini». Quindi le gabbie che si scelgono loro, perché in Italia non c’è alcuna autorità che le possa costringere a indossare il burkini, non vanno bene. Ma quelle che sceglie per loro Zanardo invece vanno bene al punto che sarebbe il caso di punirle, se non ci vogliono entrare.
Davvero curioso che una femminista supporti la proposta d’affidare a un governo il decidere come le donne possano o non possano andare vestite in spiaggia. Ancora di più se si pensa che a un eventuale divieto contro il burkini, le donne musulmane potrebbero reagire facendo il bagno vestite con abiti comuni. E lì sarebbe da vedere come le femministe à la Zanardo e il governo censore potrebbero reagire. Vieterebbero di fare il bagno vestite? Consentirebbero la balneazione solo se vestite con costumi da bagno approvati dalla legge? E se una italiana, per niente musulmana, volesse fare il bagno in burkini, che si fa? Glielo vietiamo perché il burkini non ci piace in quanto simbolo di una cultura diversa? E se arrivano le da sempre auspicate torme di turisti cinesi? Gli impediamo di fare il bagno come preferiscono perché che l’abbiamo con i musulmani o perché le femministe à la Zanardo sono convinte che chi fa il bagno troppo coperta offende la nostra cultura, i nostri costumi e le lotte delle nostre sedicenti femministe?
Domande che resteranno senza risposta perché è chiaro che vaneggiamenti del genere, falsi fin dalle premesse sulle quali si fondano, possano promanare solo da una persona che si sente superiore alle «arabe», al punto da voler imporre loro la propria estetica e i propri costumi. Poco importa se “arabe” non sono e se magari siano invece cittadine italiane con gli stessi diritti di Zanardo, primo tra tutti quello di vestirsi come pare loro più giusto. Nella sua battaglia a difesa delle «nostre lotte»Zanardo giunge quindi paradossalmente alle stesse conclusioni di un musulmano integralista, perfettamente allineato nel vietare il burkini alle donne, anche se per motivi diametralmente opposti ai suoi. Tempi tristi ci è dato vivere, la regressione ideale e intellettuale è evidente anche in campo femminista se da «il corpo è mio e me lo gestisco io» siamo arrivati alla pretesa della donna bianca di gestire i corpi di donne non più considerate sorelle, ma poverelle inferiori e sottomesse da educare a botte di divieti e leggi liberticide. L’oppressione si combatte da sempre battendosi per la libertà, non certo invocando divieti che fanno solo la gioia di pretoni islamici integralisti o di razzisti e sessisti come Salvini, per questo sarebbe il caso che questo genere di sedicenti femministe ritrovasse al più presto la diritta via, ora smarrita. Se non ora, quando?
Fonte: Mazzetta
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