di Bia Sarasini
È il corpo delle donne il nervo scoperto toccato dal divieto del burkini sulle spiagge francesi. Nudo o coperto, chi ha l’autorità di decidere? Ho letto incredula la dichiarazione del primo ministro francese Manuel Valls: «Non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica». Perché non si tratta di una moda, ha detto, bensì dell’affermazione di un progetto basato sull’asservimento della donna. Trovo sorprendente che sia così difficile soffermarsi a pensare che una decisione presa da chi rappresenta la Repubblica, non sia molto diversa da quella di chi impone per legge il velo, la copertura totale.
Si tratta di un potere che decide come deve essere, come si deve presentare il corpo di una donna. E se Paolo Flores è coerente con le proprie posizioni, nello scrivere, che «la proibizione del bikini è una giusta protezione dei principi di laicità», mi stupisce che chi si dichiara femminista, come Lorella Zanardo, consideri opportuno e necessario, e proprio per le donne, il divieto.
Nessuno ha diritto di dire a una donna come si deve vestire, o svestire, non è questo abbiamo sempre detto, noi femministe? I codici vestimentari, i codici del corpo, tutti, sono delle trappole che imprigionano le donne. Non lo aveva ben spiegato la grande scrittrice e sociologa marocchina Fatema Mernissi, che in “L’harem e l’occidente (Giunti Astrea) ci aveva svelato la tortura della taglia 42 (peraltro ora ulteriormente diminuita)? : «Fu in un grande magazzino americano”scrive, “nel corso di un fallimentare tentativo di comprarmi una gonna di cotone, che mi sentii dire che i miei fianchi erano troppo larghi per la taglia 42. Ebbi allora la penosa occasione di sperimentare come l’immagine di bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti quali l’Iran, l’Afghanistan o l’Arabia Saudita”. Un’affermazione forte e provocatoria, a mio parere l’unico quadro concettuale che permetta di ragionare a mente aperta e lucida sul nodo intricato che il burkini e le donne che lo portano ci costringono a guardare.
Perché si tratta di carne viva, non è un gioco di parole, provoca sussulti e reazioni. Quali? Che cosa è esattamente in gioco? La libertà di chi? Se si tratta della libertà delle donne musulmane, come i sostenitori del divieto affermano, a mia volta non ho dubbi. Meglio che entrino in acqua, che nuotino, che facciano sport, come vediamo alle Olimpiadi in corso, con una tenuta che risulti compatibile ai loro principi, al loro mondo, piuttosto che stiano ferme, chiuse, prigioniere. Muoversi è acquisire forza, determinazione, provare piaceri e soddisfazioni. La libertà delle donne è una costruzione, una trasformazione. Meglio che vadano a scuola, piuttosto che tenute in casa, perché la legge proibisce il velo che la famiglia e la religione impongono, come è in vigore Francia.
Sembrerebbe questa la molla che ha ispirato l’australiana di origine libanese Aheda Zanetti, che nel 2003 voleva qualcosa che permettesse a sua nipote di giocare a netball, a ideare il burkini, il nome è suo. Costume messo in commercio nel 2007, e che finora circa 700.000 pezzi nel mondo in varie versioni, da quella più aderente a quella più larga, a prezzi che in questo momento sul sito della stilista variano dai 35 ai 143 euro. Compromesso, minor danno? A me sembra una strada praticabile, di fatto il proibizionismo impedisce ad alcune donne di godere del diritto-libertà di stare sulla spiaggia e fare il bagno.
E se la libertà fosse quella degli uomini di avere a disposizione sulle spiagge corpi semi-nudi di cui bearsi senza ostacoli, come del resto capita negli sport, con telecamere che indugiano del tutto inutilmente, rispetto all’azione atletica, su cosce, culi, pube? O ancora, è in gioco la libertà delle donne di mostrarsi o no allo sguardo maschile? E che ne è della libertà delle donne di essere come desiderano essere, oltre quello sguardo, quei custodi che si arrogano il diritto di parlare a loro nome? Qual è il codice libero da quello sguardo dominante? Arduo rintracciarlo, nel libero-liberista mondo dell’unico mercato. E quanto alla laicità, che laicità è se si trasforma in fondamentalismo?
Non si tratta di confondere libertà e sottomissione. Conosciamo i codici, le leggi, i modelli culturali che costringono le donne a vite senza respiro e senza luce. Li combattiamo. Il primo passo è ascoltare le donne, quelle che scelgono di abbigliarsi in quel modo che tanto ci infastidisce e ci turba. Nulla mi sembra più liberatorio che guardarsi da vicino, le une e le altre, gli altri forse, senza schermi, su una spiaggia. Ti guardo, mi guardi. Ci guardiamo. Sono i divieti che creano distanze, barriere, abissi. Perché impedire che lo sguardo reciproco conduca al libero pensiero, alle libere scelte?
Fonte: il manifesto
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