di Shaden Ghazal
In tutte le case dei palestinesi, soprattutto quelli in diaspora, troverete una cartina della loro terra appesa su qualche parete o stampata su qualche maglia. La mappa più bella è quella con più città, con più villaggi, in cui sono tracciate anche le piccole e dimenticate viuzze, esattamente quelle che ti fanno ritornare, almeno con la mente, a casa, tra i tuoi ulivi e le tue colline che regalano tramonti mozzafiato che tu, palestinese senza diritto al ritorno, non puoi scorgere.
Non hai diritto al ritorno, ma hai diritto al ricordo, a preservare la memoria collettiva e l’identità del tuo popolo. Probabilmente cercano di strapparti anche quelli, i ricordi, di raccontare una storia diversa, di nascondere dati fin troppo evidenti, ma tu resisti.
Ecco cosa fanno i palestinesi: resistono da più di mezzo secolo al tentativo di pulizia etnica che lo stato israeliano cerca di attuare pur di arrivare alla realizzazione del sogno malato della “Grande Israele”. Eliminare la Palestina dalla geografia significa legittimare agli occhi del mondo la politica di occupazione e colonizzazione israeliana. Da quando Benjamin Netanyahu si è riconfermato al capo della Knesset, la politica israeliana ha preso una deriva ancora più a destra con nuove leggi, che rendono reato anche il semplice gesto di sventolare una bandiera palestinese.
Ecco perché vedere tutti quei drappi palestinesi sventolati dai tifosi del Celtics, mentre era in corso la partita contro gli israeliani dell'Hapoel Beer Shev, è stato un gesto politico fortissimo che potrebbe avere delle ripercussioni sulla tifoseria biancoverde, visto che il regolamento della Uefa proibisce qualsiasi manifestazione politica all’interno degli stadi. Ma la verità è un’altra.
Lo sport non esula dalla politica, non può farlo e ce lo dimostrano, a livello nazionale e non, tutte quelle polisportive che combattono razzismo e fascismo sui campi da gioco. Come può lo sport non parlare di politica quando è stata creata una squadra olimpica di rifugiati da far sfilare a Rio, tra i finti applausi e l’ipocrita commozione? Perché in fondo, diciamocelo, per quanto possa essere una forma di riscatto per la giovane siriana Yusra e gli altri, l’esistenza della Refugees Olimpic Team rappresenta una sconfitta di tutti.E ancora, l’esempio del judoka egiziano El Shebaby che sceglie di non stringere la mano all’avversario israeliano al termine dell’incontro.
El Shebaby è stato squalificato per quello che in pochi riconoscono come gesto politico.Al riguardo, interessante l’affermazione del Portavoce del Comitato Olimpico, Mark Adams, secondo cui un atteggiamento del genere sarebbe inaccettabile in virtù del fatto che il movimento olimpico dovrebbe” costruire ponti per il dialogo e non erigere muri”.
Quando Mark Adams parla di muri perché non cita ciò che succede in Palestina, dove praticare uno sport diventa una forma di resistenza all’occupazione?
L’abbiamo visto proprio recentemente, quando i sei atleti che rappresentano la Palestina ai Giochi di Rio, sono arrivati in Brasile senza l’equipaggiamento adatto, in quanto tutto il materiale sportivo era stato trattenuto dall’esercito israeliano. Israele sa bene che presentarsi in mondovisione con la propria divisa, con una propria bandiera, significa ritagliarsi quell’angolino in cui affermare la propria esistenza e la propria identità, significa avere il proprio spazio e il proprio momento per autodeterminarsi.
La lezione ci arriva ancora una volta da chi è abituato a resistere quotidianamente, con un team che sarebbe stato pronto a cucirsi all’ultimo minuto la bandiera palestinese pur di riuscire a sventolarla, con coraggio e orgogliosa rabbia.
Non è la prima volta che gli atleti palestinesi vengono presi di mira, anzi. Jibril Rajoub, presidente della Federazione calcistica palestinese, chiede da anni che la comunità sportiva internazionale intervenga e alzi il cartellino rosso contro Israele e la sua politica di Apartheid. Nel 2009, qualche riflettore si accese sulla vicenda del calciatore palestinese Mahmud Sarsak, imprigionato nelle carceri israeliani senza alcun reale motivo se non quello di essere palestinese.
In quell’occasione ci furono diverse campagne internazionali, quella del movimento BDS in primis, che chiesero la scarcerazione non solo di Sarsak, il quale, intanto, aveva iniziato un lungo sciopero della fame, ma anche degli altri atleti palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane sotto regime di detenzione amministrativa (regime che consente a Israele di arrestare anche minorenni, per capirci).
Del resto, la nazionale di calcio palestinese, motivo di orgoglio per uno stato che anche Google Maps ha deciso di eliminare, è sotto attacco da sempre.
Jawhar Nasser Jawhar e Adam Abd al-Raouf Halabiya, due promesse del calcio palestinese, erano poco più che maggiorenni quando vennero colpiti agli arti inferiori dall’esercito israeliano. Un gesto che ha messo fine ai loro sogni e alla loro carriera, ma non alla speranza di vedere la propria terra libera dall’occupazione militare.
Così mi ritorna in mente una scena di qualche anno fa a El Khalil (l’ebraicizzata Hebron), quando un soldato israeliano aveva fermato un bambino che stava giocando a calcio con degli amici perché la palla era finita su Shuhada Street, quella strada nota per essere interdetta ai palestinesi.
Una palla, l’esercito israeliano può fermarti per un calcio dato a una palla.
Come la storia che ci racconta la regista di origine libanese Amber Fares nel suo documentario “Speed Sister” (Palestina, 2015), incentrato sulle vicende della squadra di rally femminile palestinese, la prima e l’unica in Medio Oriente.
Ecco quindi che le giovani Maison, Mona, Marah, Noor e Betty gareggiano sulle macchine da corsa sfatando falsi miti e pregiudizi sul mondo arabo - che stanno riemergendo tutti ora, tra l’altro, ma questo discorso merita una lunga parentesi a parte - e sfidando, ad alta velocità, l’occupazione israeliana che limita qualsiasi tipo di libertà.
Si tratta sempre di una questione di scelte, nella vita come nello sport.
Benjamin Netanyahu potrebbe scegliere di non simpatizzare, per esempio, per Beitar Jerusalem, la squadra di calcio israeliana tristemente nota per il becero razzismo diffuso tra le file della sua tifoseria e per i cori anti-arabi e anti-islamici che utilizzano durante ogni match. In diverse occasioni lo stesso Premier ha dovuto criticare l’atteggiamento xenofobo di una parte della curva, quella che si fa chiamare “La Familia” e che ostenta il suo essere “puro” per non aver mai avuto in squadra giocatori arabi (ci furono tentativi da parte della dirigenza di invertire la rotta, ma non andarono a buon fine proprio per le minacce de La Familia).
La comunità sportiva internazionale avrebbe potuto dare più voce alle richieste del calciatore Sarsak, quando in un appello alla Uefa chiese di mettere sotto pressione Israele, in quanto stato che “si adopera incessantemente per reprimere il calcio palestinese, proprio come fa per molte altre forme di cultura palestinese.”
Ma non lo ha fatto, se non con qualche inutile avvertimento.
Chi ama lo sport odia il razzismo.
Chi ama lo sport odia il fascismo.
E lo sanno bene i tifosi del Celtics che hanno scelto da che parte stare e hanno vinto, in tutti i sensi. Un gesto di solidarietà che è arrivato assieme alla notizia dell’uccisione in seguito a un raid israeliano di Muhammad Abu Hasshah, 17 anni, del campo profughi di Fawwar (El Khalil).
Ed è per lui e tutti gli altri che si continuerà a resistere anche sui campi da calcio.
Fonte: Global Project
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