di Chiara Cruciati
Omran Daqneesh ha cinque anni. È stato tirato fuori vivo da un palazzo colpito da un raid aereo. Non piange, non grida. Prova solo a pulirsi il sangue sulla sedia arancione dell’ambulanza su cui il paramedico l’ha lasciato. Omran è il silenzio disilluso di Aleppo, come Alan Kurdi era il fragore della fuga dalla guerra. Aleppo non può andare oltre. La popolazione – 1,2 milioni ad ovest, nei quartieri sotto il governo, e 300mila ad est, sotto le opposizioni – è allo stremo. Gli scontri incessanti rendono impossibile la consegna degli aiuti.
E l’Onu alza le mani: l’inviato Staffan de Mistura ha sospeso ieri la task force a sostegno dei civili. Ad Aleppo non si entra, il programma era già ufficiosamente bloccato. Tanto vale chiuderlo, un atto più politico che pratico: De Mistura chiede «un gesto di umanità ad entrambe le parti» e una cessazione delle ostilità di almeno 48 ore.
Parole che seguono all’abbandono dell’incontro a Ginevra della task force dopo solo 8 minuti: nemmeno un convoglio è entrato, questioni di cui parlare ne restavano poche. «Quello che sentiamo dalla Siria – ha detto irritato – sono solo scontri, bombe, offensive, controffensive, missili, napalm, cecchini, bombe barile, kamikaze. In un un mese non un solo convoglio è stato in grado di raggiungere le zone assediate».
Mosca, che chiaramente gestisce i giochi, risponde: il Ministero della Difesa russo si è detto pronto ad implementare la tregua di 48 ore la prossima settimana, a condizione che gli aiuti passino sia nei quartieri del governo che in quelli delle opposizioni.
La colpa dello stallo è duplice: la Russia colpisce senza sosta, avendo in mano le sorti della battaglia; le opposizioni proseguono nella controffensiva anti-assedio. Di negoziare non se ne parla, non conviene a nessuno. Prima si vuole capire dove la «battaglia finale» condurrà e per Aleppo sarà tardi.
La scadenza di fine agosto paventata dall’Onu per la riapertura del dialogo a Ginevra è vicinissima: ieri fonti Usa hanno prospettato un incontro il 26 agosto tra il segretario di Stato Kerry e il ministro russo Lavrov. Ma a parlare è la guerra. I fronti si riposizionano con attori vecchi e nuovi che fanno capolino, convinti che Aleppo determinerà il futuro della Siria: la Cina si fa avanti per sostenere ufficialmente Assad, l’Iran dà le basi alla Russia, la Turchia sta con il piede in due staffe aprendo alla cooperazione con Teheran e Mosca ma senza stralciare gli obblighi Nato.
E gli Stati Uniti vanno nel pallone. Il silenzio di Washington (e quello della Ue, del tutto assente) è assordante: dopo aver quasi bombardato la Siria nel 2013, oggi Obama si defila e non reagisce alle chiare provocazioni della Russia che da giorni parla di dialogo in corso con la Casa Bianca su un possibile coordinamento militare.
Dopo cinque anni di guerra, con le opposizioni moderate all’angolo e quelle jihadiste in prima linea, con l’Isis padrone di ampie porzioni di territorio, la soluzione non è militare. Dalle violenze incrociate non si uscirà. La soluzione è politica: la guerra civile va interrotta individuando i nemici comuni e un processo di transizione che veda partecipi le diverse anime del paese. Utopia, visti gli interessi contrastanti e l’intreccio difficilmente districabile tra opposizioni islamiste e moderate.
E il governo deve capire che non riavrà indietro la Siria che aveva plasmato, aprendo prima di tutto le sue prigioni. Ieri Amnesty ha pubblicato un rapporto sulle carceri governative. Con le testimonianze di 65 sopravvissuti ha ricostruito una delle prigioni più temute, Saydnaya a Damasco: un complesso di tre braccia all’interno del quale in migliaia subiscono orribili torture e pestaggi. Costretti al silenzio in celle affollate, dove l’arrivo del cibo è accompagnato dalle botte, Saydanya – spiega Amnesty – è esempio del modello detentivo siriano.
Nelle prigioni di Stato, aggiunge, sarebbero morti 17.723 detenuti da marzo 2011 a dicembre 2015: più di 300 al mese, 10 al giorno. L’organizzazione afferma di non poter indicare con esattezza il numero di prigionieri e di decessi, provocati da torture, inedia e scarsità di cure mediche. Restano per questo dubbi sull’effettivo bilancio, che potrebbe apparire sovrastimato.
Fonte: il manifesto
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