di Alberto Negri
Davanti al suo drappo nero si sono sciolti come neve al sole interi eserciti come quello iracheno, e la sua barbarie aveva spinto alla fuga o sottomesso milioni di arabi, curdi, cristiani, sciiti, yezidi. Questo è davvero l’inizio della fine dell’Isis e quale sarà la strategia del Califfato per sopravvivere? Era il 2 giugno del 2014 quando venne avvistata per la prima volta la bandiera nera sulla via di Damasco. Qualche settimana dopo, il 29 giugno, il suo capo Abu Baqr al-Baghdadi avrebbe proclamato il Califfato da Mosul, seconda città irachena.
Fu una delle rare apparizioni pubbliche di questo ex prigioniero del carcere di Camp Bucca, inspiegabilmente liberato dagli americani nel 2009. «Quello è Daesh, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, che voi chiamate Isis», disse il generale siriano Suhayl puntando il binocolo verso l’estrema periferia di Douma, una delle roccaforti dei ribelli anti-Assad. Spazientito e nervoso il generale aggiunse che l’Isis aveva appena sloggiato al-Nusra, gruppo jihadista affiliato ad al-Qaeda con il quale i siriani del regime stavano trattando.
Fu una delle rare apparizioni pubbliche di questo ex prigioniero del carcere di Camp Bucca, inspiegabilmente liberato dagli americani nel 2009. «Quello è Daesh, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, che voi chiamate Isis», disse il generale siriano Suhayl puntando il binocolo verso l’estrema periferia di Douma, una delle roccaforti dei ribelli anti-Assad. Spazientito e nervoso il generale aggiunse che l’Isis aveva appena sloggiato al-Nusra, gruppo jihadista affiliato ad al-Qaeda con il quale i siriani del regime stavano trattando.
Due anni dopo il destino traccia scenari assai curiosi per uno Stato islamico in forte arretramento territoriale che ha il suo cuore pulsante nel Siraq, alcune roccaforti in Libia (non più la Sirte) ma che si estende con i gruppi affiliati dall’Afghanistan all’Africa occidentale. Ricordiamo che la guerra in Afghanistan nel 2001 non fu la fine di al-Qaeda di Osama Bin Laden, che si ricostituì in Yemen con colonne agguerrite dal Medio Oriente all’Africa.
L’incrocio tra l’Isis e al-Qaeda, da cui in Iraq tutto è nato, propone nuovi sviluppi in una regione dove i jihadisti sono il simbolo ma anche l’espressione del fanatismo religioso e del declino culturale di Stati in disgregazione. Il Fronte al-Nusra, impegnato nella battaglia di Aleppo, ha appena cambiato nome staccandosi proprio da al-Qaeda e forse verrà cancellato dalla lista nera dei gruppi terroristi per entrare a far parte dell’opposizione “rispettabile” contro Assad: nelle sue file torneranno i transfughi che avevano giurato fedeltà al Califfato. Ecco che cosa può accadere a una parte dell’Isis dopo un’eventuale sconfitta: i miliziani più “ragionevoli” verranno riciclati tra i jihadisti “buoni”, quelli sostenuti dalla Turchia e finanziati da sauditi e qatarini. Può apparire scandaloso ma questa è una mossa tattica, ispirata dagli americani, per usare i jihadisti anti-Assad anche in chiave anti-iraniana e tenere sotto pressione la Russia. In Medio Oriente i mostri generano altri mostri: noi la chiamiamo Realpolitik.
Ma questa è solo una parte della storia. L’Isis continuerà a operare magari in maniera diversa con il piano B del suo portavoce al-Adnani. Abu Mohamed al-Adnani è una sorta di “ministro” degli attentati, supervisore del fronte esterno coordina i combattenti in Occidente ma finora non ha neppure dovuto preoccuparsi della segretezza. Anzi, all’opposto. Più è trasparente e più è facile per chi ascolta mettere in pratica le sue direttive. Dagli attacchi in Germania a un camion-ariete come a Nizza. Ma bisogna guardare oltre. Secondo alcune ricostruzioni al-Adnani inizia a pensare a quando l’Isis potrebbe essere sconfitto, ovvero studia come creare una quinta colonna in Europa. E i jihadisti potrebbero usare il nord-est della Siria come area di addestramento, un “ponte” sul confine turco. Del resto da cinque anni è la meta agognata dei foreign fighters: è il “nostro” Afghanistan da monitorare. Per questo è importante la conquista della roccaforte di Manbij da parte della coalizione curdo-araba appoggiata dagli Usa: taglia la strada verso Raqqa, capitale del Califfato, ma anche la via di fuga dei jihadisti in direzione della Turchia.
È scattato così il Gran Premio per Raqqa: una corsa a due tra la coalizione capeggiata dagli Stati Uniti e quella a guida russa con Assad, iraniani ed Hezbollah. Ma la sua caduta non sarà la fine della storia.
Nella battaglia contro l’Isis la chiave politica della vicenda è importante quanto quella militare. Anzi senza la prima non si riesce a comprendere neppure la seconda. Il Califfato di al-Baghdadi potrà essere anche effimero ma la barbarie, l’ingiustizia, la violazione continua dei diritti umani sono da queste parti moneta corrente e tollerata nel grande gioco delle alleanze e degli interessi mondiali. Anche questa è stata una delle cause che hanno portato in Medio Oriente all’ascesa del jihadismo e al successo della sua propaganda.
La storia cominciata nel 2003 con la caduta di Saddam non termina adesso. Lo Stato Islamico non ha fatto tutto da solo ma si è alleato con le tribù sunnite e i gruppi baathisti di Saddam che avevano con i jihadisti un obiettivo in comune: rimuovere dal potere gli sciiti. Al-Baghdadi, militante di Al-Qaeda e seguace del giordano Abu Musab Zarqawi, ha sfruttato il caos saldando guerra siriana e irachena. Ma le vere e profonde cause della rivolta sono state la corruzione e le politiche discriminatorie di Baghdad, una formidabile propaganda per l’Isis nelle province sunnite così come è avvenuto in Siria, Paese a maggioranza sunnita dominato con pugno di ferro dalla minoranza alauita degli Assad. L’irredentismo sunnita, sostenuto da potenze esterne come Arabia saudita e Turchia, non finirà con la sconfitta del Califfato e forse neppure con una nuova mappa del Medio Oriente.
Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore
Fonte: pagina Facebook dell'Autore
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