di Maurizio Cortini
Lo sciopero generale dei lavoratori di Poste Spa promosso dalla quasi totalità del cartello del sindacalismo complice, confederale ed autonomo, con la partecipazione anche di frazioni del sindacalismo di base, ci consente alcune considerazioni che prescindono dalle sincere ragioni dei lavoratori di poste e dal malessere profondo di una categoria utilizzata, suo malgrado, come massa di manovra. La privatizzazione di Poste Italiane è un processo in corso da ormai un ventennio, il cui dato caratterizzante è stato la costante condivisione da parte del sindacalismo cogestionario dell’intero percorso, in tutte le sue fasi.
Non solo, con il modello poste la Cisl, il sindacato di gran lunga più rappresentativo in categoria con quasi il 50% dei consensi alle elezioni RSU, ha sostanzialmente inverato il suo assunto statutario di sindacato-azienda, di sindacato insediato nei luoghi decisionali strategici, il cui ruolo è finalizzato alla cogestione dei processi aziendali. Non esiste ambito aziendale decisionale, ad ogni livello gerarchico, che non contempli la presenza di uomini riferibili al sindacalismo complice. Insomma una macchina di potere interno che non trova riscontri in altri contesti del mondo del lavoro, forse una vaga somiglianza è riscontrabile con la situazione nelle ferrovie. E allora se la privatizzazione ha rappresentato il “cavallo di Troia” per un’operazione di conquista di uno dei gangli vitali del sistema infrastrutturale-finanziario del paese, come mai uno sciopero contro la privatizzazione? La risposta è apparentemente semplice: la privatizzazione nel suo progressivo processo di espropriazione di risorse e di concentrazione in ambiti sempre più ristretti e sganciati dalla stessa dimensione aziendale, Poste è un player per l’intero sistema finanziario, non accetta limitazioni rappresentate da un “corpus” di interessi corporativi e clientelari, con costi non sempre organici ai disegni del processo di privatizzazione. Evidente al riguardo la mutazione avvenuta in Cassa Depositi e Prestiti, centro della finanza pubblica, crocevia delle operazioni di politica industriale a sempre più elevato contenuto finanziario di cui Poste ha rappresentato il “rubinetto” di una liquidità che, per chiara scelta strategica a favore del sistema bancario, comincia a vacillare e che richiede urgenti interventi a garanzia della reddittività dell’azionista. In definitiva, gli apprendisti stregoni del sindacalismo complice con l’intenso processo di destrutturazione delle condizioni normative e salariali non sono più i garanti del controllo sulla categoria e dell’attuazione dei piani aziendali. Il modello Poste, tanto acclamato, è evidentemente in crisi. Lo sciopero, al di là della sua riuscita, non può riportare indietro ad equilibri ormai compromessi, ad interessi ricomponibili solo nel riconoscimento del primato del sistema finanziario e bancario, di cui i primi a farne le spese saranno i lavoratori e il servizio pubblico postale nella sua interezza.
Non solo, con il modello poste la Cisl, il sindacato di gran lunga più rappresentativo in categoria con quasi il 50% dei consensi alle elezioni RSU, ha sostanzialmente inverato il suo assunto statutario di sindacato-azienda, di sindacato insediato nei luoghi decisionali strategici, il cui ruolo è finalizzato alla cogestione dei processi aziendali. Non esiste ambito aziendale decisionale, ad ogni livello gerarchico, che non contempli la presenza di uomini riferibili al sindacalismo complice. Insomma una macchina di potere interno che non trova riscontri in altri contesti del mondo del lavoro, forse una vaga somiglianza è riscontrabile con la situazione nelle ferrovie. E allora se la privatizzazione ha rappresentato il “cavallo di Troia” per un’operazione di conquista di uno dei gangli vitali del sistema infrastrutturale-finanziario del paese, come mai uno sciopero contro la privatizzazione? La risposta è apparentemente semplice: la privatizzazione nel suo progressivo processo di espropriazione di risorse e di concentrazione in ambiti sempre più ristretti e sganciati dalla stessa dimensione aziendale, Poste è un player per l’intero sistema finanziario, non accetta limitazioni rappresentate da un “corpus” di interessi corporativi e clientelari, con costi non sempre organici ai disegni del processo di privatizzazione. Evidente al riguardo la mutazione avvenuta in Cassa Depositi e Prestiti, centro della finanza pubblica, crocevia delle operazioni di politica industriale a sempre più elevato contenuto finanziario di cui Poste ha rappresentato il “rubinetto” di una liquidità che, per chiara scelta strategica a favore del sistema bancario, comincia a vacillare e che richiede urgenti interventi a garanzia della reddittività dell’azionista. In definitiva, gli apprendisti stregoni del sindacalismo complice con l’intenso processo di destrutturazione delle condizioni normative e salariali non sono più i garanti del controllo sulla categoria e dell’attuazione dei piani aziendali. Il modello Poste, tanto acclamato, è evidentemente in crisi. Lo sciopero, al di là della sua riuscita, non può riportare indietro ad equilibri ormai compromessi, ad interessi ricomponibili solo nel riconoscimento del primato del sistema finanziario e bancario, di cui i primi a farne le spese saranno i lavoratori e il servizio pubblico postale nella sua interezza.
Far crescere la consapevolezza tra i lavoratori che lo scontro in atto riguarda prospettive ed interessi estranei ai lavoratori stessi e alla difesa dell’ occupazione, cosa possibile solo attraverso il recupero della strategicità del servizio pubblico, è un compito possibile solo rompendo con la subalternità all’egemonia del sindacalismo complice.
Fonte: Contropiano
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