di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Uno degli strumenti più micidiali a difesa dell’attuale modo di produzione, sebbene esso sia diventato un oggettivo ostacolo allo sviluppo e all’emancipazione del genere umano, è che non esistono alternative. Far credere che il potere sia invincibile e ogni resistenza sia vana è funzionale a mantenere l’assurda situazione per cui l’1% del genere umano si appropria di più risorse del restante 99%. In questo contesto l’ideologia dominante si impegna, a sua volta, a dare a intendere che la battaglia per l’egemonia nella società civile sia persa in partenza e con essa, dunque, la stessa Rivoluzione in occidente sarebbe solo una vana utopia. Tanto più che, visto che nel modo di produzione capitalistico tutto è ridotto a merce che deve essere venduta sul mercato, non si può produrre che opere culinarie, mentre le opere critiche e antagoniste devono essere necessariamente destinate a una nicchia di mercato, elitaria e snob, di cinefili.
Ora, a ricordare ancora una volta che la verità è rivoluzionaria e l’imperialismo è in realtà una tigre di carta, ci pensano due prodotti dell’industria cinematografica statunitense, vero e proprio monopolio dell’immaginario internazionale, distribuiti nel nostro Paese in prima visione. Così, pochi giorni dopo aver potuto ammirareL’ultima Parola. La vera storia di Dalton Trumbo, vero e proprio omaggio al coraggio e alla determinazione di un comunista in grado di sconfiggere la caccia alle streghe del maccartismo, abbiamo potuto assistere ad una potente demistificazione di quella società ipocrita e benpensante che ha consentito al modo di produzione capitalistico di continuare a dominare.
Il caso Spotlight (valutazione 8+) denuncia in modo estremamente efficace non solo come la copertura dei preti pedofili sia non l’eccezione quanto, piuttosto, la regola, ma che tale occultamento di un crimine così barbaro sia reso possibile da una società di ipocriti conservatori, che preferisce far sempre finta di non vedere e non sentire le grida disperate delle vittime. Tanto più che queste ultime sono scientificamente selezionate fra i settori più poveri e deboli della società, gli umiliati e offesi che non hanno nessuna voce in capitolo. Che cosa potrebbe valere, in fondo, la testimonianza di un bambino, figlio di tossici, menomato psichicamente, dinanzi a un’istituzione considerata da tutti i benpensanti, compresi quelli di sinistra [1], come la coscienza etica della nostra società?
Tali turpi violenze, commesse nel modo più vigliacco da un uomo che sfrutta il suo potere e il suo prestigio per violentare delle povere creature indifese, spesso costrette al suicidio o alla follia dai sensi di colpa, sono considerate dalla maggior parte della società civile borghese come i danni collaterali da pagare, magari comprando per trenta denari il silenzio delle disperate famiglie delle vittime, per far sì che l’oppio del popolo possa continuare a essere impunemente spacciato. Tanto più che, restringendosi i margini di profitto, i livelli di sfruttamento cui è sottoposta la forza lavoro rendono indispensabili dosi sempre più massicce di stupefacenti, in grado di fornire un cuore artificiale a una società sempre più spietata. Proprio perciò è assolutamente indispensabile che la regola sia presentata come un’eccezione e un sistema che si fonda sulla repressione dei bisogni naturali dell’uomo, portando a una loro realizzazione nei modi più assurdi e irrazionali, possa essere considerato sano semplicemente spostando, di tanto in tanto, la necessaria mela marcia, in modo che non contamini e scandalizzi il resto del gregge sano.
Ora, un tale contenuto sostanziale, una denuncia sociale così netta, coraggiosa e controcorrente è espressa nel modo più naturale, ossia più razionale, più sano, senza dover ricorrere a tutti quegli artifici formalistici alla moda della dominante cultura post-moderna. Così gli artisti possono, a partire dal regista, essere totalmente ricompresi e superati nella loro opera collettiva, senza dover mettere sempre in primo piano, secondo questo fastidiosissimo vezzo della moderna arte romantica, la loro inessenziale soggettività, senza stare costantemente a strizzare l’occhio agli addetti ai lavori con qualche ridondante citazione, senza dover mirare allo stomaco del grande pubblico, senza dover compiacere la bassezza del senso comune.
Il film non deve nemmeno ricorrere agli stereotipi fascistoidi del cinema americano, dall’odio per gli intellettuali, all’esaltazione del plebeo, dall’individualismo superomistico, al qualunquismo dell’antipolitica. Tuttavia, nonostante non faccia nessuna concessione all’ideologia dominante, al senso comune dei nostri tempi oscuri, ai vezzi intellettualistici e postmoderni, il film non convince del tutto. Non riesce a far riflettere, divertendo e appassionando come Trumbo, né è latore di un messaggio realmente rivoluzionario.
Il film, per quanto ben confezionato, con una valida équipe di attori, per quanto affronti una tematica sostanziale, purtroppo estremamente attuale, non decolla mai del tutto. Talvolta tende a perdersi in particolari inessenziali tipici del genere cinematografico dedicato al giornalismo d’inchiesta. Soprattutto non sottolinea a sufficienza come tale spirito critico, coraggioso e illuministico, non possa in nessun modo esser considerato tipico della società civile borghese. Al contrario, si tratta dell’eccezione che conferma la regola, dal momento che in una società che non funziona persino fare il proprio dovere professionale, fare il proprio mestiere in modo onesto e coscienzioso richiede un eroismo e uno spirito di sacrificio del tutto fuori del comune.
Infine, dal film non si evince per niente che gli stupefacenti religiosi siano resi in qualche modo necessari dalla stessa affermazione di una società come quella capitalistica del tutto priva di cuore. Proprio per questo il coraggioso e necessario dito nella piaga dell’ipocrisia cattolica, se non mette in discussione il sistema disumano che se ne serve come micidiale arma di distrazione di massa, rischia di favorire lo spaccio di droghe ancora più artificiose e dannose, come le sette evangeliche epigone del calvinismo. Esse oltre a essere diretta emanazione del sistema, che se ne serve come strumento di egemonia fra le masse deprivate di ogni coscienza di classe, esprimono nel modo più puro lo spietato individualismo, il darwinismo sociale della società borghese.
Dinnanzi a un film così significativo passa necessariamente in secondo piano una pellicola, pur pregevole, come The Danish Girl (valutazione 7-), nonostante tocchi un tema di scottante attualità nel nostro Paese, in cui i benpensanti al potere occultano i peggiori crimini commessi nei confronti di creature indifese e considerano un pericolo da criminalizzare ogni cosa che contrasti con la “normalità” filistea. In questo caso assistiamo alle traversie che deve affrontare uno spirito femminile prigioniero di un corpo maschile, per poter vivere ed esprimere serenamente la propria sessualità, ossia per poter realizzare un bisogno naturale che un’ipocrita società di benpensanti tende a considerare una pericolosa malattia, per altro contagiosa, o addirittura un vizio.
Anche in questo caso a rendere impossibile la vita di una persona, che già deve fare i conti con il contrasto fra la propria res cogitans e la propria res extensa, interviene una visione del mondo mitologico-religiosa che pretende, in modo intollerante, di imporsi come l’unica legittima, reprimendo ogni forma di devianza dal senso comune dominante. Soltanto l’indimostrabile credenza di vivere nel migliore dei mondi possibili, in quanto opera del sommo bene, può impedire a uno spirito di poter liberamente esprimersi mediante il proprio corpo, di poterlo modellare a propria immagine e somiglianza.
Repressa come un’inammissibile devianza, come un’impossibile ribellione di contro a una natura creata ed espressione di un’infallibile volontà divina, la spiritualità è costretta a celarsi nel subconscio e a dotarsi di un’apparenza dettata dalla necessità di non essere espulsa da una società ipocrita, ignorante e bigotta.
Proprio per questo la sua liberazione, da un’apparenza indotta e imposta dall’esterno, non può che avvenire attraverso una rottura necessariamente violenta, che non può che passare per una netta sottolineatura della propria peculiarità, della propria sessualità repressa. Si tratta evidentemente di una “violenza seconda” i cui effetti andrebbero messi anch’essi nel conto della violenza prima, sociale, che ne è la causa scatenante. È proprio questa assurda repressione della personalità di un individuo a costringerlo ad affermare ciò che dovrebbe essere naturale e in qualche modo scontato, come un’eroica conquista. Al punto di dover fare degli aspetti più esteriori della propria sessualità una sorta di vessillo, di bandiera, da sventolare e difendere con le unghie e con i denti.
Purtroppo nel film non si sottolinea a sufficienza come la relativa emancipazione del protagonista sia resa possibile da un insieme di circostanze decisamente atipiche, a partire dalla posizione sociale e dal ruolo che svolge all’interno della divisione del lavoro nella società capitalista. In effetti, la conquista della possibilità di poter affermare liberamente la propria sessualità, sebbene essa sia in contrasto con la visione mitologico-religiosa dominante, è tollerata molecolarmente ad un membro, generalmente maschio e bianco, della classe dominante, in particolare se si tratta di un artista di successo, mentre è assolutamente repressa per i membri delle classi subalterne. Proprio perciò la lotta per la liberazione sessuale non è, come potrebbe apparire dal film, il risultato della superiore sensibilità dell’artista, o della tolleranza garantita dalla società liberale, ma il frutto di quel durissimo conflitto di classe che è il reale motore della (prei)storia.
Note:
[1] Al punto che, nel nostro Paese, si può tranquillamente sentire nell’introduzione ad un’assemblea della sinistra dura e pura che l’unico vero leader della sinistra mondiale è il primo gesuita a esser divenuto Papa.
Fonte: La Città futura
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