di Andrew Ross
Lanciare l’allarme sulla “scomparsa” del ceto medio è stata una caratteristica persistente della vita politica americana negli ultimi due decenni. Dato che di solito aspiranti leader nazionali e manager fanno riferimento al popolo americano genericamente come ceto medio (il termine “classe operaia” è stato da molto tempo espunto dal discorso politico ufficiale), l’erosione degli strati a reddito medio è particolarmente minacciosa per l’immaginario nazionale. La corrispondente espansione delle classi “discount” e “lusso”, per usare la terminologia del mercato di consumo, va contro il sentire dell’ethos democratico americano. Questo credo si è mantenuto attraverso il XX secolo con una successione di promesse presidenziali per arginare la plutocrazia e fornire una misura di equità, dallo “Square Deal” di Theodore Roosvelt al “New Deal” di Franklin D. Roosvelt, il “Fair Deal” di Harry Truman e la “Grande Società” di Lyndon B. Johnson. La versione contemporanea si presenta sotto la forma molto più debole del “ripristinare il ceto medio”.
Di fronte alla dilagante polarizzazione di classe, i sostenitori neoliberali amano sottolineare che il volume di coloro che si uniscono ai ranghi della prosperità è maggiore di quelli che cadono in povertà, ma ci sono altri modi meno rosei di snocciolare i numeri, inclusi gli ormai famigerati dati (raccolti da Piketty e Saez) sul monopolio dell’accumulazione di ricchezza da parte dell’1%. Un recente studio condotto dal Centro sulla Povertà e le Ineguaglianze di Stanford ha mostrato che la quota di ricchezza nazionale detenuta dall’1% al vertice è salita dal 25% negli anni ’70 al 42% nel 2012. Una statistica più significativa è una recente valutazione della Federal Reserve (più conservatrice delle altre) secondo cui quasi metà della popolazione americana non può pagare una spesa imprevista di 400 dollari senza vendere qualcosa o prendere denaro in prestito. Vivere su questo bordo fiscale non si avvicina ad alcuna delle nozioni tramandate di stabilità del ceto medio.
Il costituirsi del decantato ceto medio americano nel dopoguerra è stato una combinazione di espansione capitalistica in mercati senza forti competitori globali, rilievo del potere dei sindacati e significativi investimenti statali nei beni sociali. Il sottostante patto (o tregua armata) tra capitale e lavoro è crollato negli anni ’70, e i salari medi negli Stati Uniti ristagnano più o meno da quel periodo, nonostante una crescita del 200% nella produttività. Il credito a buon mercato è stato l’unico fattore che ha permesso al ceto medio di stare a galla nei tre decenni tra il 1978 e il 2008, e la fantasia alimentata dal debito della “società di proprietari” si è dissolta sulla scia del crollo finanziario. Nonostante l’affermazione degli economisti secondo cui il cosiddetto “eccesso di debito” dal 2008 sarebbe stato risolto, il debito aggregato delle famiglie è in costante ascesa ritornando ai livelli pre-crollo (ha raggiunto i 12,12mila miliardi complessivi nel dicembre 2015). Il debito studentesco – che non ha mai vacillato ed è diventato la più grande voce onerosa sui bilanci del ceto medio – continua a crescere inesorabilmente.
Retrospettivamente, è chiaro che il frettoloso conferimento dello status di ceto medio alle famiglie operaie nell’immediato dopoguerra è stato prematuro. Gli alti salari sindacali dei lavoratori del settore primario sono stati una benedizione, finché è durato il contratto del dopoguerra, ma il pesantemente sovvenzionamento dei proprietari di casa (quasi esclusivamente riguardante famiglie bianche e a guida maschile) è stata l’ultima chiave per sbloccare questo status; quando il racket dei titoli ipotecari è infine crollato nel 2008, questa formula debitoria per assicurarsi una “ricchezza patrimoniale” in assenza di un reddito crescente è stata decimata. Solo attraverso i pignoramenti delle case gli afroamericani hanno perso più della metà della ricchezza che avevano accumulato da quando era stato loro reso accessibile il mercato dei mutui, sotto pressione federale. La ricchezza delle famiglie latinos è scesa del 66%. Alla luce di ciò e del divario razziale nella ricchezza che la “società dei proprietari” ha finito per allargare, qualsiasi campagna per restaurare un falso ceto medio attraverso il rilancio del pieno accesso al credito a buon mercato suona piuttosto squallido, perfino predatorio.
Il contraccolpo politico per il salvataggio delle banche di Wall Street da parte di Washington è stato lento ma sicuro, e non ci sono dubbi sul fatto che ne stiamo vedendo alcuni degli impatti nelle attuali campagne presidenziali, che presentano molte deroghe dalla normalità rispetto a quelle che abbiamo visto per lungo tempo. Quando la senatrice Elizabeth Warren, il flagello di Wall Street, ha esitato a prendere posizione per Hilary Clinton, un’altra donna democratica, Bernie Sanders si è proposto di guidare la carica contro le politiche neoliberali: lo ha fatto con grande slancio, rifiutando di rifuggire dall’etichetta di “socialista democratico” che gli oppositori avevano sperato si trasformasse in una maledizione elettorale. La “scoperta” da parte dei sondaggisti che così tanti giovani americani si identificano nell’essere “socialisti” è solitamente diagnosticata dagli esperti come un sintomo semplicemente anomalo di una stagione elettorale in cui la classe politica appare aver perso il controllo sul processo.
Nel caso dei democratici, questa violazione della deferenza può rivelarsi temporanea, specialmente se Hilary Clinton si muove quanto basta sulla sinistra del centro per assorbire la forza della sfida di Sanders. La crisi è molto più profonda sull’altro lato. Di fronte all’imprevista ascesa di Donald Trump, la tradizionale coalizione conservatrice appare cadere a pezzi. Questa instabile intesa tra la classe degli affari socialmente moderata e la “maggioranza morale” guidata dai cristiani ha sempre richiesto un difficile bilanciamento (risalente agli sforzi di William F. Buckley per fare pace con il “senza dio” Ayn Rand), ed è tenuta insieme in quanto macchina elettorale incorporando le politiche revansciste di suprematismo bianco del Sud.
Gli esperti alla ricerca di una spiegazione già pronta per questi sconvolgimenti sono inclini a rivolgersi al populismo, perché può facilmente essere associato con gli ignoranti (dunque irrazionali e perfino paranoici) impulsi delle masse che si sentono escluse dall’orbita della decisione. Il populismo è solitamente descritto come “alzare la testa” in tempi duri, come se fosse una sgradevole bestia (da non confondersi con gli “spiriti animali” della classe creditrice) che viene tenuta sotto controllo quando la democrazia paternalista funziona correttamente. Questo tipo di analisi – “il bruto è sciolto” – di rado non cita il libro di Richard Hofstader del 1964 Lo stile paranoico nella politica americana, scritto subito dopo che l’emergente libertario Barry Goldwater aveva strappato la nomina presidenziale a Nelson Rockfeller, il consumato affarista repubblicano. Scandagliando la profonda attrazione per la teoria della cospirazione che ha attraversato la lunga successione storica di fasi anti-massoniche, anti-cattoliche e anti-comuniste, Hofstader ha fornito una spiegazione “psichiatrica” per la rabbia nel temperamento nativista del nuovo conservatorismo. Nel suo racconto, la paranoia era espressione di frazioni di classe spossessate o con mobilità sociale discendente, che proiettavano il comportamento cospirativo o addirittura traditore sulle elite della costa orientale. L’analogia con la popolarità di Trump è evidente (nel suo mondo, tutti gli avversari sono i “perdenti”), anche se non del tutto convincente.
L’analisi di Hofstader ha attinto molto dalla sua precedente interpretazione del movimento populista nel tardo XIX secolo contenuta ne L’età delle riforme(1955). Combattendo con la comprensione convenzionale di questo movimento come una sfida agraria all’ascesa del capitalismo industriale del tempo, l’autore ha spiegato che il punto d’attacco dei populisti era principalmente il manifestare i loro ruoli di agricoltori piccolo borghesi o imprenditoriali. Lungi dall’essere critici radicali del capitalismo, erano risentiti per il loro essere stati sloggiati dalla primazia sulla scena nazionale e stavano cercando di migliorare la loro posizione mobilitando il sospetto sulle macchinazioni delle elite degli affari. La sua interpretazione si appoggiava sul paradogma dell’“ansia di status” sostenuta dagli scienziati sociali della guerra fredda, e dava priorità alla spiegazione culturale rispetto a quella economica del populismo, che continua a toccare la sensibilità delle risposte all’ascesa del Tea Party e adesso del trumpismo.
Tuttavia, l’influenza dell’analisi di Hofstader è servita per minimizzare ciò che era genuinamente radicale nella rivolta degli agricoltori populisti contro il capitalismo monopolistico, con i loro sforzi per avviare alternative cooperativistiche. Ha anche marginalizzato l’evidenza che i plutocrati del tempo in realtà “cospiravano” (e ancora lo fanno) per promuovere i loro ristretti interessi di classe. In un’era di maggiore trasparenza dell’informazione pubblica, è stato più facile verificare i sospetti – avanzati dal 99% di Occupy e condivisi, per ragioni differenti e in diverse versioni, dal Tea Party – sulla combriccola che sta dietro al salvataggio delle banche. Mentre sono stati fatti molti sforzi per dipingere entrambi i movimenti come marginali e illiberali guastafeste contro la proprietà della classe politica da parte dei banchieri, la documentazione di truffe, illeciti, frodi e menzogne di Wall Street è di dominio pubblico da parecchi anni.
La rielezione di Obama nel 2012 ha semplicemente rinviato la resa dei conti e ha in qualche modo assicurato che assumesse una forma “populista”. Perfino in una democrazia borghese, in cui il Congresso è apertamente comprato e pagato da ricchi donatori, in cui il sistema elettorale truccato offre solo una piccola finestra all’espressione popolare, i risultati possono ancora virare verso l’imprevedibile. È così che i liberali e i conservatori della Beltway sono stati colti di sorpresa dalle campagne di Sanders e Trump, perché entrambi hanno cercato di incanalare il disgusto popolare rifiutando il menù bipartisan standard fatto di libero commercio, politiche di austerità e completa tolleranza per l’attività di estrazione finanziaria.
Detto questo, l’ondata di sostegno per Trump non costituisce certo un nuovo schieramento. Per lungo tempo i bianchi economicamente depressi si sono a lungo identificati con pezzi grossi spacconi che hanno loro proposto uno spettacolo di unità razziale interclassista. Solitamente questo invito si presenta nella forma retorica del fischio per cani, riconoscibile e apprezzata da coloro che sono in sintonia con gli eufemismi e le intonazioni della solidarietà bianca. Trump, naturalmente, a questa retorica ha strappato il camuffamento ed è apertamente razzista nei suoi appelli. Anche la sua ricchezza personale gli permette di riversare disprezzo sul sistema elettorale guidato dai donatori, facendo ancora una volta appello ai conservatori a basso reddito per i quali le politiche repubblicane hanno fatto molto poco, ma la cui lealtà è data per scontata dal partito. Il suo culto della personalità fai-da-te è atipico, però sembra essere diretta più a generare attenzione mediatica che non a costruire la base proto-fascista paventata da cui alcuni commentatori. Di sicuro ci sono alcuni punti in comune con i raggruppamenti della destra anti-immigrati in Europa: Alba Dorata in Grecia, Ukip nel Regno Unito, Pegida in Germania, il Partito per la Libertà in Olanda, il Fronte Nazionale in Francia, il Partito della Libertà Austriaco, i Veri Finlandesi, i Democratici Svedesi, il Partito del Popolo Danese, la Lega Nord in Italia, il Partito del Progresso in Norvegia, e anche quelli che sono al potere, come Jobbik in Ungheria e Diritto e Giustizia in Polonia. Ma queste sono tutte formazioni che si stanno affermando: Trump opera nella culla di una lunga tradizione di un partito nazionale, con una campagna che sta sfruttando le contraddizioni poste dalla sua deriva verso destra.
L’iniziativa di Sanders è di gran lunga più fresca. Il sostegno per il suo corso apertamente di sinistra trae le sue risorse più entusiastiche dai giovani, ma ha dimostrato di essere intergenerazionale e interclassista in vari stati. Ha raccolto punti per la sua integrità personale, la sua focalizzazione priva di compromessi sulla garanzia statale di beni sociali come l’istruzione superiore gratuita e l’assistenza sanitaria universale, la sua posizione retta sul cambiamento climatico e la sua difesa dei posti di lavoro affinché non scompaiano nel giro di una notte. L’affetto di Sanders per questi capisaldi è spesso guardata come un ritorno al passato, ma il “ceto medio” che lui dice di voler ripristinare non è mai esistito, deve cioè ancora essere fatto. Difficilmente può essere sostenuto senza impegnarsi con il segmento di votanti che ha mostrato di essere più resistente a Sanders, gli americani neri del Sud. La loro forte fedeltà ai Clinton è stata paragonata alla fede dei repubblicani a basso reddito, i cui interessi economici sono solitamente mal serviti dalle politiche del partito. Dopo tutto, le epocali leggi di Bill Clinton sul crimine nel 1994 e sul welfare nel 1996 hanno colpito duramente gli afroamericani a basso reddito, ed erano pubblicamente sostenute dalla moglie. Dunque, anche i sostenitori neri di Clinton nel Sud sono stati rimproverati dall’intellighenzia nera per la loro prospettiva “provinciale”, che favorisce politici della regione o chi, come la stessa Clinton, ha speso più tempo là.
Ma queste non sono spiegazioni sufficienti, perché non vanno al cuore dell’eredità dell’ordine razziale non scritto del Sud, che continua ancora oggi. Non a caso il Sud è anche il cimitero del populismo del XIX secolo. Gli afroamericani hanno a lungo subito l’accusa di aver in qualche modo tradito quel movimento che aveva cercato di fare causa comune non solo tra lavoro agricolo e industriale, ma anche tra agricoltori neri e bianchi. Ma queste non erano alleanze naturali. Come ha sottolineato il leader sindacale Samuel Gompers, gli agricoltori, a differenza degli operai di fabbrica delle città, erano principalmente una classe di datori di lavoro e, per l’elemento agrario, erano maggiormente predisposti, se erano bianchi, a impiegare locatari e braccianti neri. In ogni caso, sfidare l’elite di potere del profondo Sud nell’era post-ricostruzione significava andare contro il violento ordine dei Borboni democratici, la cui restaurazione al potere era stata garantita dallo schiacciamento dei populisti neri con ogni mezzo a disposizione: terrore, frode elettorale, corruzione, propaganda razzista e quotidiana intimidazione. Così, anche i bianchi del Sud sono stati persuasi che un voto per il Partito del Popolo fosse un atto di tradimento razziale, mentre i populisti bianchi che avevano bisogno del voto dei neri del Sud erano ancora percepiti come opportunisti o addirittura ipocriti, e non veramente impegnati nella solidarietà interrazziale. Di conseguenza, il sostegno nero al populismo si è ridotto e gli afroamericani sono stati rimproverati, non per l’ultima volta, di “votare contro i propri interessi”. Tuttavia, la reale minaccia della violenza li aveva ricacciati verso i partiti dell’establishment, in particolare i repubblicani, che dopo tutto avevano fornito l’emancipazione, e tra le cui fila avevano avuto un posto.
Anche il “populismo” della campagne di Sanders nel 2016 si sta arenando sullo scoglio dei neri del Sud. Ancora una volta, sembrano votare per il punto di appoggio costituito all’interno di un partito che è ora strettamente governato dalla nuova linea democratica clintoniana, piuttosto che buttarsi su sponde non familiari. In una regione in cui la Confederazione è ancora onorata in una miriade di modi, questa cautela è complicata. Dunque, anche il simbolismo di una presidenza femminile, che segue la pionieristica occupazione della Casa Bianca da parte di Obama, significa di più per le popolazioni a cui sono negati rappresentanza e riconoscimento nella vita pubblica dei ceti superiori. Ma forse la lezione più importante ha a che fare con la comunicazione del messaggio di Sanders sul “ripristinare il ceto medio”, e non è semplicemente una questione di tono. Alle orecchie degli afroamericani, questo appello è diretto in primo luogo ai bianchi declassati che hanno perso i vantaggi garantiti dal liberalismo del dopoguerra. Lungi dal condividere tale status, gli americani neri e altre minoranza erano specificamente escluse dalle opportunità formative e di proprietà della casa create dal GI Bill e da altri programmi (così come le prospettive di vita di tante donne erano subordinate al “salario familiare” del maschio breadwinner che aveva sostenuto il raggiungimento dello status di ceto medio). La creazione di un ceto medio nero è arrivato molto più tardi, e i bambini nati al suo interno hanno maggiori probabilità di cadere in basso rispetto ad altri gruppi. Inoltre, diversamente dall’America bianca, il ceto medio è un’identità che viene pubblicamente ascritto a una minoranza e non a una maggioranza degli afroamericani. Non vi è alcuna aspettativa, nell’immaginazione pubblica, che questo tipo di avanzamento socio-economico – a lungo considerato un’aspirazione di base, se non un diritto di nascita, per i bianchi – si estenderà alla maggior parte dei neri americani.
Proprio mentre si sbiadisce in quanto emblematico stile di vita americano, l’affermazione dell’identità di ceto medio rimane pericolosa come è sempre stata, e non solo a causa della sua medietà. Dietro all’adesione formale tributata alla maggior parte degli ideali di unità nazionale negli Stati Uniti, si trova la corrosiva divisione in termini di razza, che prende nuove forme. Come ha sostenuto Malcolm X, il razzismo negli Stati Uniti è “come una Cadillac, ogni anno viene fuori con un nuovo modello”. Il movimento Black Lives Matter, iniziato proprio mentre le energie di Occupy si stavano disperdendo, è solo il più recente sforzo per costruire un’adeguata risposta al pervasivo impatto del suprematismo bianco. La robusta sfida di Occupy alla finanziarizzazione ha lavorato nell’impregnare il lessico politico, mettendo in primo piano nelle campagne presidenziali questioni come il debito studentesco (ma non i pignoramenti). Al contrario, l’impatto di Black Lives Matter è ancora ampiamente sotterraneo e si affaccia in superficie solo quando i candidati sono costretti ad assumere una posizione retorica sulle abituali uccisioni per mano della polizia di maschi neri disarmati, sui crescenti tassi di incarcerazione delle minoranze o sul brusco peggioramento della loro condizione economica.
Il trauma nero e il senso di colpa bianco che circonda queste ingiustizie non sono solitamente percepiti dalla classe politica come centrali, e non potrebbe essere altrimenti. Fornire comfort materiali insieme a una misura di sicurezza esistenziale – le caratteristiche tradizionali della vita di ceto medio – non è un sostituto di quello che Robin Kelley ha chiamato i “sogni di libertà” dei liberazionisti radicali, per cui l’adesione al mainstream della società americana (la scorciatoia per raggiungere lo status di ceto medio nero) era una volta, ed ancora è, un ricetta per la pacificazione, una forma più lieve di incarcerazione. A tale proposito, il vero spirito dell’abolizionismo – l’eliminazione delle prigioni e della violenza di Stato, lo smantellamento del potere della creditocrazia, la dissoluzione dell’eredità dell’omofobia e del sessismo – si trova nel futuro, non nel ripristino di un passato compromesso. Una politica di classe che voglia guardare avanti deve abbracciare questo spirito e vivere di conseguenza.
Fonte: commonware.org
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