di Michele Prospero
Da quando è al governo, Renzi è alla ricerca di qualche record. Ne ha incassato già due: quello, di sicuro memorabile, di aver risvegliato sensibilmente le morti bianche, sopite in 15 anni di lento declino, e l’altro, anch’esso epocale, che ha posto il suo dicastero in testa a tutti gli esecutivi per il ricorso a voti di fiducia. Adesso, per il giovane governo del fare, arrivano altri primati, e pure certificati. Le statistiche diffuse da Eurostar sanciscono infatti una sinistra ma italica primazia: l’inquilino di Palazzo Chigi è il leader che, nell’Unione europea, investe meno fondi in cultura e scuola.
I vegliardi burocrati di Bruxelles dirottano in media il 10,2 per cento delle risorse pubbliche all’educazione. I virgulti governanti dell’Etruria li strapazzano, senza ritegno. E accordano solo il 7,9 per cento della ricchezza perché hanno intuito che non ha senso l’austerità se il bilancio nasconde inutili spese per quel superfluo bene che mette strane idee per la testa dei cittadini.
Nel vecchio continente nessuno, tra i governanti d’ogni colore, batte il tosco condottiero per lo sforzo di annichilire la percentuale di spesa pubblica ancora destinata all'educazione. Anche nel 2014 il governo dà l’assalto al sapere e riesce a piazzare l’Italia al penultimo posto per gli stanziamenti destinati alla cultura in generale (1,4% a fronte del 2,1% medio dei paesi Ue). Se la perfida Romania non si ostina a strapazzare ancor più del governo Renzi i fondi per la cultura, “piè veloce” può acciuffare anche questo nitido primato.
Ai flaccidi tedeschi, che proprio negli anni della crisi economica, hanno incrementato del 20 per cento i fondi per l’università, Renzi risponde con piglio decisionista facendo precipitare le risorse per l’educazione terziaria allo 0,3 del Pil (contro la media Ue dello 0,8). Nel decennio della crisi, gli atenei hanno perso 65 mila matricole (20 per cento), oltre 11 mila docenti, e i fondi ordinari per l’università crollano del 22,5 per cento.
Ottime notizie per gli statisti cresciuti sulle rive dell’Arno, che solleticano il gagliardo mito dell’uomo solo al comando che, con tweet, selfie e chiacchiere con Barbara D’Urso, dovrebbe emanare supremi odori carismatici a un pubblico passivo e narcotizzato. I giornali riferiscono che anche il ministro per le riforme Boschi è affascinata dai miti eroici del comando e per questo viene chiamata dai suoi seguaci (tra i quali spiccano gli idealisti di Migliore e Di Salvo) “la capa”.
C’è un qualche rapporto tra la fissazione dei politicanti di oggi per la leadership solitaria e il misconoscimento dei fondamentali dell’arte politica? Lo storico Piero Melograni, negli anni ’70, pubblicò un libro Saggio sui potenti in cui sosteneva una tesi che merita di essere vagliata. “Quanto più grande –scriveva- è il potere di un capo, tanto più grande è la sua ignoranza”. Solo un politico con scarse doti di cultura istituzionale può coltivare il fascino dell’uomo solo al comando e ritenere che esista per davvero un potere personale che nei luoghi arcani dell’influenza si attrezza come prerogativa privata.
Il potere efficace in una società moderna e differenziata è in realtà una faccenda ben più complessa di quanto sospettino statisti del calibro di Renzi, Boschi e Lotti. E solo chi non se ne intende del funzionamento delle istituzioni, può rinverdire la bella ricetta antica, quella oscura massima che raccomandava al potere di diffondere una poco dotta ignoranza tra i sudditi per conservare così i misteri sacri dell’autorità impenetrabile che pensa solo a colpi di 140 caratteri.
Fonte: Pagina Facebook dell'Autore
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