di Gianluca Ruggieri
Da quasi vent’anni mi occupo di efficienza energetica (soprattutto) e di fonti rinnovabili (in parte), come educatore, formatore, docente, ricercatore, consulente, autore di libri, attivista, cooperatore, amministratore, padre e cittadino. Credo che il referendum del 17 aprile sia un’occasione per ragionare collettivamente sul nostro futuro. Un’opportunità che non abbiamo ancora colto, sommersi dalla troppa propaganda. Provo a fare il punto e a dire la mia.
Perché siamo chiamati a votare
Per capire come si è arrivati a questo punto è necessaria una lunga digressione. Nel 2008 il governo si attribuì (attraverso un decreto poi convertito in legge) il compito di definire una Strategia energetica nazionale(SEN) quale strumento di indirizzo e programmazione della politica energetica nazionale.
Nelle intenzioni di Silvio Berlusconi e della sua maggioranza la SEN avrebbe dovuto aprire la strada allo sviluppo di impianti di produzione di elettricità da fonte nucleare. Nel 2011 a seguito dell’incidente di Fukushima il governo eliminò i riferimenti al nucleare. Il successivo passaggio referendario tra le altre cose cancellò l’obbligo di realizzare la SEN.
Nelle intenzioni di Silvio Berlusconi e della sua maggioranza la SEN avrebbe dovuto aprire la strada allo sviluppo di impianti di produzione di elettricità da fonte nucleare. Nel 2011 a seguito dell’incidente di Fukushima il governo eliminò i riferimenti al nucleare. Il successivo passaggio referendario tra le altre cose cancellò l’obbligo di realizzare la SEN.
Le mutate condizioni di mercato non avrebbero probabilmente mai consentito di realizzare un impianto nucleare nel nostro paese, in ogni caso l’esito referendario lasciava aperto un tema: come affrontare la questione degli approvvigionamenti energetici del nostro paese?
Per questo motivo il governo Monti, nelle figure del Ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera e del Ministro dell’Ambiente Corrado Clini, decise di intraprendere un percorso di consultazione per la definizione di una Strategia Energetica Nazionale. Se fossimo gufi, potremmo dire che un governo a scadenza e senza esplicito mandato elettorale non avrebbe dovuto arrogarsi il diritto di definire una strategia così a lungo termine(arriva fino al 2050). Invece siamo ottimisti e apprezziamo il fatto che per una volta si sia provato a realizzare un percorso di consultazione dei portatori di interesse per una questione così rilevante.
Il percorso durò dall’ottobre 2012 (quando venne pubblicato il documento do consultazione) al marzo 2013 (quando fu pubblicato il documento finale). La Strategia Energetica Nazionale: per un’energia più competitiva e sostenibile si basa su sette priorità che comprendono ad esempio l’efficienza energetica e lo sviluppo delle fonti rinnovabili ma anche lo sviluppo del mercato del gas e della raffinazione dei prodotti petroliferi.
La pubblicazione della SEN sollevò molte critiche e vista oggi fa quasi tenerezza: “ci si attende che le rinnovabili diventino la prima fonte nel settore elettrico al pari del gas con un’incidenza del 35-38%”. Questo era l’obiettivo al 2020. Ma già nel 2014 (cioè solo un anno dopo la pubblicazione della SEN) le rinnovabili hanno prodotto il 37,5% del consumo interno lordo di elettricità. Quindi secondo la SEN non dovremmo più realizzare impianti rinnovabili per i prossimi cinque anni: non scherziamo!
Ma forse il punto più controverso della SEN fu l’inserimento tra le priorità della cosiddetta “Produzione sostenibile di idrocarburi nazionali”. Da quel momento infatti ebbe inizio una serrata campagna di promozione della ricerca ed estrazione di idrocarburi nel nostro paese, nonostante la stessa SEN dicesse che le riserve certe di gas e petrolio nel nostro paese fossero pari a 126 milioni di TEP e quindi inferiori al consumo di un solo anno (pari a 135 milioni di TEP). La SEN parla anche di “risorse possibili e probabili” pari a 700 milioni di TEP e quindi sufficienti a coprire i consumi del nostro paese per 5 anni. Ma nella nomenclatura internazionale le riserve possibili sono quelle che hanno più del 50% di possibilità di essere estratte in maniera economicamente conveniente, quelle probabili hanno meno del 50% di possibilità di essere convenienti. Se consideriamo che il prezzo del petrolio nel 2013 era compreso tra 100 e 120 dollari al barile mentre oggi è pari a circa 40 dollari, capiamo perfettamente come il concetto di “economicamente conveniente” sia estremamente labile. Le stime sulle riserve inserite nella SEN se venissero rifatte ora andrebbero necessariamente riviste al ribasso.
Lo Sblocca Italia
In ogni caso nel 2013 era partita la rincorsa delle fossili che trovò il suo punto più alto nel novembre 2014 con la conversione in legge del decreto Sblocca Italia. Il testo approvato dalle camere è lungo e articolato e riguarda diverse questioni, dalle reti autostradali alle telecomunicazioni, dal dissesto idrogeologico al rilancio dell’edilizia, dal piano su porti e aeroporti alla bonifica di Bagnoli.
Il capo IX (articoli 36-39) è dedicato alle Misure urgenti in materia di energia (e sarebbe interessante discutere sull’urgenza di tali misure, ma lo faremo un’altra volta). In estrema sintesi, per quello che riguarda lo sfruttamento degli idrocarburi, il decreto, dichiarando di pubblica utilità tutte le opere connesse con lo sfruttamento delle risorse fossili, semplificava gli iter autorizzativi togliendo potere alle regioni e favorendo gli espropri di terreni privati a favore delle grandi imprese petrolifere. Di fatto, dopo lo Sblocca Italia era più semplice ottenere l’autorizzazione per un impianto di estrazione di petrolio in mare che non quella per un impianto eolico.
Dieci regioni per sei referendum
Queste modifiche legislative, introdotte senza passare da una modifica costituzionale, aprivano un conflitto di attribuzione con le regioni. Inevitabilmente questa scelta ha portato a una serie di ricorsi alla corte costituzionale (presentati da sette regioni e dalle due provincie autonome di Trento e Bolzano) su vari contenuti del decreto. In materia energetica lo Sblocca Italia ha catalizzato l’azione di diversi comitati locali che, uniti in un coordinamento nazionale, hanno lavorato alla definizione di sei quesiti referendari che intervenivano complessivamente sulla materia della cosiddetta coltivazione di idrocarburi.
I sei quesiti sono stati adottati da dieci consigli regionali nel settembre 2015 dopo che la campagna referendaria di Possibile (che comprendeva anche due quesiti in materia) aveva sollevato grandi entusiasmi senza però arrivare a raggiungere le 500.000 firme necessarie alla convocazione del referendum. Giova ricordare l’elenco delle regioni promotrici Abruzzo (poi sfilatosi), Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto. Se escludiamo Liguria e Veneto, in tutti gli altri otto consigli regionali la maggioranza comprende il Partito Democratico (che ne esprime in tutti i casi il presidente della giunta).
In ogni caso il governo non è stato a guardare e nel maxi emendamento alla legge di stabilità 2016, su cui ha posto la fiducia, ha introdotto una serie di modifiche alla normativa con l’intenzione di evitare il confronto referendario. Quindi, dopo aver approvato norme discutibili in un decreto (che la Costituzione prevede solo in i casi straordinari di necessità e urgenza) il governo un anno dopo mette la fiducia su un provvedimento che le cancella. Anche qui è interessante notare come, a valle del maxiemendamento, la legge di stabilità 2016 (approvata definitivamente il 28 dicembre 2015) sia composta di un unico articolo con novecentonovantanove commi. Novecentonovantanove commi che ovviamente riguardano materie diversissime andando per lo più a intervenire su testi di legge esistenti. E sappiamo come va in questi casi quando c’è da infilare un emendamento. Insomma un bel casino.
Su cosa si vota
Dopo le modifiche legislative approvate cinque dei sei quesiti sono stati cancellati: su cinque quesiti i comitati e le regioni hanno quindi già vinto. È pero rimasto un quesito, riformulato dalla corte di cassazione. In pratica si voterà su un referendum che non è stato chiesto da nessuno.
Con la legge di stabilità 2016 è stata sostanzialmente ripristinata la normativa precedente, sia per quello che riguarda gli impianti (vecchi e nuovi) sulla terraferma sia per quello che succede oltre le 12 miglia dalla costa, pari a circa 22 km. È importante ricordare che la zona in cui l’Italia ha diritti sovrani sulla gestione delle risorse è ben più ampia (ad esempio nel mare Adriatico arriva fino a metà della distanza con gli altri paesi costieri). La legge di stabilità ha peraltro vietato le nuove autorizzazioni entro il perimetro delle 12 miglia, cioè nelle cosiddette acque territoriali. Ma è mantenuta la possibilità di ricerca ed estrazione di idrocarburi (gas e petrolio) per le concessioni attive. In questo caso le attività possono proseguire “per la durata di vita utile del giacimento”. Se si fossero accettate le richieste delle regioni anche su questo punto non si sarebbe neppure andati a votare (e io non vi ammorberei con questo lungo papiro). E invece.
Cos’è una concessione? Quando un bene è nella disponibilità della pubblica amministrazione ma questa non lo utilizza direttamente, ne può concedere l’uso o lo sfruttamento a un privato. Di solito a fronte di questo sfruttamento il concessionario (cioè chi ha ottenuto la concessione) dovrà corrispondere allo stato una qualche forma di onere economico. Nel caso degli idrocarburi sono imposte le cosiddette royalties.
La normativa europea in materia stabilisce che l’estensione e la durata delle concessioni debbano “essere limitate in modo da evitare di riservare ad un unico ente un diritto esclusivo su aree per le quali la prospezione, ricerca e coltivazione possono essere avviate in modo più efficace da diversi enti” (Direttiva 94/22/CE). Quindi la norma attualmente in vigore appare in contrasto con il diritto comunitario e potrebbe portarci a una procedura di infrazione (del resto questo è quello che si rischia quando si fanno le leggi di corsa).
Cosa succede se vince il sì?
Semplicemente le concessioni avranno la durata prevista in origine. Non è quindi assolutamente vero che venga provocato un danno ai concessionari: quando hanno ottenuto la concessione sapevano di poter sfruttare quel pozzo per un certo numero di anni e hanno valutato che l’investimento necessario fosse economicamente giustificato. Se si ripristina la situazione precedente non si genera un danno ma si elimina un profitto ingiustificato.
Peraltro il concessionario è tenuto, al termine della concessione, a realizzare le opere di ripristino ambientale, che ovviamente costituiscono un costo. Senza una scadenza definita quindi si ha un incentivo a ritardare il più possibile l’esaurimento del giacimento per ritardare i costi di ripristino.
Di quanto gas e di quanto petrolio stiamo parlando?
Le concessioni in essere all’interno del perimetro delle 12 miglia sono normalmente attive da diversi anni. Sia quelle già scadute sia quelle non ancora scadute hanno raggiunto il massimo della produzione negli anni ’90 e da almeno 15 anni stanno quindi diminuendo progressivamente la loro produzione. Secondo ASPO Italia stiamo complessivamente parlando del 26% circa della produzione nazionale di gas e del 9,1% della produzione nazionale di petrolio (il resto avviene a terra oppure oltre le 12 miglia marine). Se li paragoniamo ai consumi nazionali stiamo parlando del 3,2% dei consumi di gas e del 1,1% dei consumi di petrolio. Le concessioni andranno in scadenza in un periodo compreso tra il 2016 e il 2027, quindi l’effetto nella diminuzione della produzione non è istantaneo e abbiamo tutto il tempo di intervenire.
Peraltro i consumi di gas e di petrolio sono in diminuzione costante da diversi anni. Secondo i dati di Unione Petrolifera tra il 2005 e il 2014 i consumi di gas sono diminuiti del 27% e quelli di petrolio del 33%. Quindi una riduzione dei consumi compresa tra l’1 e il 3% in dieci anni, non dovrebbe costituire un problema ma un’opportunità.
Quali sono gli altri effetti del referendum?
C’è spesso la percezione diffusa che lo sfruttamento degli idrocarburi costituisca una ricchezza comune, ma così non è. I concessionari sono i proprietari di tutto quanto viene estratto, fatto salvo quanto viene versato allo stato, alle regioni e ai comuni come royalties. Secondo i dati del ministero, tra il 2008 e il 2015 le aziende che estraggono petrolio e gas nel nostro paese hanno versato mediamente circa 305 milioni di euro di royalties all’anno a governo regioni e comuni, corrispondente a 5 euro e 3 centesimi per ogni italiano. Grossolanamente con la vittoria dei sì dovremmo passare da 5 euro e 3 centesimi a 3 euro e 70 centesimi di qui al 2027 e tutto questo ammesso che la produzione nazionale possa continuare per il resto inalterata, cosa che appare altamente improbabile, visto che sta calando costantemente da molti anni.
Ovviamente le aziende concessionarie pagano anche le tasse (come fanno tutte le altre aziende, ci mancherebbe altro) ma anche considerando le tasse non arriviamo a 15 euro a testa all’anno e quindi il danno economico causato dal referendum non supera i 4 euro l’anno a testa (sempre distribuito in 10 anni).
Un altro effetto evidenziato da molti è quello sull’occupazione. Sono state diffuse stime diverse in cui si parla di decine di migliaia di posti di lavoro complessivamente o di oltre 6000 posti di lavoro solo in Emilia Romagna in due anni. Ma come sono stati fatti questi conti?
Il Censimento Industria e Servizi 2011 ci dice che complessivamente in Italia gli occupati nel settore estrattivo (oil and gas) erano circa 13 mila, scesi a poco meno di 12 mila nel 2014 secondo Eurostat.
Secondo Assomineraria si parla complessivamente in Emilia Romagna di “quasi 40.000 addetti tra compagnie O&G, indotto e fornitura di beni collaterali”. Difficile dire quanti di questi siano impiegati nelle piattaforme entro le 12 miglia, visto che nel conto vengono messi anche i dipendenti di aziende che sono attive nelle forniture all’estero (e non si capisce in che modo dovrebbero essere interessati da una eventuale vittoria del sì).
Secondo lo studio “Unioncamere-SI.Camera, Quarto Rapporto sull’Economia del Mare, 2015” complessivamente l’industria estrattiva marina in tutta Italia conta circa 6000 impiegati nel 2014. Ricordiamo che il referendum riguarda circa la metà delle estrazioni marine e che le concessioni si esauriranno in dieci anni.
Peraltro il settore estrattivo italiano è in grossa crisi, indipendentemente dal risultato del referendum. Il calo della produzione nazionale di gas e di petrolio è un fatto indiscutibile ormai da diversi anni anche se non assume le dimensioni catastrofiche a cui si assiste negli USA (140 mila posti di lavoro persi) o in Canada (100 mila posti persi).
Inoltre, l’industria estrattiva è tipicamente una industria capital intensive. Nel già citato rapporto di Unioncamere si può notare come di tutti i settori dell’economia marina l’industria estrattiva sia quella che produce meno posti di lavoro a parità di valore aggiunto. Per ogni milione di euro di valore aggiunto i vari settori analizzati sono in grado si produrre da un minimo di 13 (movimentazione di merci e passeggeri) a un massimo di 25 posti di lavoro (servizi di alloggio e ristorazione) mentre l’industria estrattiva ne produce solo 2,5.
Se allarghiamo lo sguardo e confrontiamo i posti di lavoro prodotti dal settore delle fonti fossili rispetto a quelli creati dagli investimenti in efficienza energetica o in rinnovabili i risultati non sono equivocabili. Le stime possono variare a seconda del paese analizzato o a seconda dell’istituto che le realizza ma in tutti i casi, sia che si ragioni a parità di investimenti sia che si ragioni a parità di energia prodotta (o risparmiata) qualsiasi investimento in rinnovabili o in efficienza energetica produce più posti di lavoro di quanti ne produca un investimento in fonti fossili. E sia in Canada, sia negli Stati Uniti sembrano aver capito la dimensione delle sfide e delle opportunità.
Del resto mio nonno vendeva carbone che a Milano si usava per riscaldarsi. Almeno fino a quando arrivo la giunta Aniasi che ne ridusse l’uso senza troppo preoccuparsi dei posti di lavoro persi.
Quali sono le ricadute ambientali?
Ogni attività umana provoca effetti diretti o indiretti sull’ambiente. È complicato stabilirne precisamente gli impatti, soprattutto quando si ragiona in termini di rischio, ma proviamo ad andare con ordine.
Sicuramente le normali attività di estrazione (anche in assenza di incidenti) provocano un aumento nella concentrazione delle sostanze inquinanti sui fondali in prossimità delle piattaforme estrattive. Per i dati finora resi pubblici (che riguardano solo 34 dei 135 impianti attivi) anche dove sono stati superati i valori di legge non sembrano esserci particolari rischi per la salute umana o per l’ecosistema marino.
Quali rischi ci sono in caso di incidente? Come già sottolineato il referendum riguarda soprattutto impianti che estraggono gas. In caso di incidente vi è evidentemente un rischio potenziale per i lavoratori impiegatima sostanzialmente in caso di fuoriuscita di metano i rischi ambientali sono tutto sommato limitati e riguardano soprattutto gli impatti sui cambiamenti climatici (il metano è un gas con un potente effetto serradecine di volte superiore rispetto a quello dell’anidride carbonica).
Quindi l’estrazione è a impatto zero? La subsidenza è quel fenomeno naturale per cui il terreno si abbassa. Questo fenomeno può essere accelerato dalle attività umane ad esempio dall’emungimento di acqua dalle falde sotterranee. Venezia tra gli anni ’50 e ’60 si abbassò di circa 10 cm a causa dell’utilizzo di acqua di falda negli impianti industriali di Marghera che infatti fu poi sospeso.
La subsidenza di per sé non costituisce un grave problema eccetto che nelle località costiere dove questo fenomeno si somma al cosidetto eustatismo, cioè al fatto che il livello del mare tende ad alzarsi. E sappiamo tutti bene che i cambiamenti climatici stanno provocando un generale innalzamento del livello dei mari. La somma dei due fenomeni determina la perdita di litorali e spiagge che vengono inevitabilmente ricoperti dal mare (e il cui ripristino comporta ingenti costi per la collettività).
Ma cosa c’entrano i giacimenti di gas? Anche l’estrazione di gas può determinare un’accelerazione dei fenomeni di subsidenza. Ad esempio nella zona di Ravenna la subsidenza osservata sembra interamente riconducibile all’estrazione di acqua ma l’Agenzia Regionale per l’Ambiente fa notare come il modello adottato per l’interpretazione del fenomeno non funziona “nella fascia direttamente affacciata al mare (per es. l’area critica di Cesenatico) per la quale bisogna individuare altri fattori responsabili del fenomeno per spiegare i valori di subsidenza effettivamente misurati”. Guarda caso si parla di una zona dove sono presenti molti dei giacimenti su cui siamo chiamati a votare il 17 aprile.
Anche se non è possibile dimostrare un nesso causa ed effetto certo, è chiaro come ogni estrazione di gas in una zona costiera intervenga propriodove il fenomeno della subsidenza può causare gli impatti maggiori.
In conclusione: per questo voto sì
Ci sono almeno tre motivi per cui mi sono convinto a votare sì e nessuno di questi ha a che fare con il populismo o con la guerra al governo Renzi. Anzi lo faccio per il bene del governo (non è il migliore dei governi possibili, ma è pur sempre il governo del mio paese).
Il primo motivo è che ritengo inaccettabile il trattamento di favore a cui sono sottoposti i concessionari. Come già ho ricordato, una concessione senza scadenza secondo me è contraria al diritto europeo. Una concessione senza scadenza non è una concessione. Vorrei evitare il rischio che il nostro paese sia sottoposto a una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea a causa della violazione della direttiva relativa alle condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi.
Il secondo motivo è il fatto che serve una definizione precisa delle priorità nella politica energetica di questo paese. Nel corso del 2015 c’è stata una inversione di rotta rispetto a quanto previsto dallo Sblocca Italia. Ma senza un pronunciamento popolare il governo potrebbe tranquillamente cambiare la normativa per la terza volta. In caso di vittoria del sì il quadro cambierebbe.
In pratica io voglio aiutare il governo a fare bene quello che si è già impegnato a fare alla fine del 2015 (cambiando idea rispetto al 2014). Questo potrebbe anche costituire un utile preambolo a una nuova strategia energetica nazionale che appare urgente indipendentemente dal responso delle urne.
Il terzo motivo è più generale. A dicembre l’Italia ha sottoscritto l’accordo di Parigi insieme ad altri 194 altri paesi. Questo accordo prevede che vengano realizzati dai paesi firmatari tutti gli interventi necessari per mantenere l’aumento di temperatura media ben al di sotto di 2 gradi centigradi. Per poter ottenere questo risultato è necessario ridurre il più possibile i consumi di combustibili fossili nel minor tempo possibile. In termini pratici ciò significa che ci siamo impegnati a lasciare sotto terra la gran parte delle riserve certe di idrocarburi. Chi ha fatto i conti dice che dobbiamo evitare di estrarre l’82% del carbone, il 49% del gas naturale e il 33% del petrolio che già sappiamo di avere.
Spesso questi accordi internazionali sono percepiti come qualcosa che va ben al di sopra delle nostre teste, qualcosa che attiene all’oscuro lavoro notturno di una banda di burocrati che ha poche connessioni con la realtà. Se vogliamo dare più forza a questo accordo quale migliore occasione di un referendum popolare? È vero che il quesito riguarda una questione tutto sommato marginale, ma è una questione che inevitabilmente è inquadrata in un contesto più ampio. In pratica abbiamo l’occasione di guardarci negli occhi e impegnarci reciprocamente a fare quello che serve per migliorare la qualità della vita di tutti. Daremo peraltro più forza al governo nel percorso verso il raggiungimento degli obiettivi per cui si è impegnato a Parigi. Potremmo per una volta dimostrare di essere una comunità capace di prendersi un impegno condiviso facendoci carico tutti assieme delle conseguenze delle nostre scelte.
Ma forse il motivo vero per cui voterò sì alla fine è solo uno. È il fatto che anche io come la contrammiraglio Grace Hopper sono convinto che la frase più pericolosa di tutte sia: abbiamo sempre fatto in questo modo.
Fonte: gli statigenerali.com
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.