di Mauro Palma
Tornano con prepotenza le immagini della tortura anche nel contesto della quotidianità. Tornano nelle affermazioni di chi, in nome di un realismo politico e investigativo, non esclude il ricorso a pratiche di interrogatorio muscolare nella lotta al terrorismo internazionale, ora che questo tocca pesantemente le nostre strade, le nostre abitudini, i nostri mezzi di trasporto e non più soltanto luoghi e persone geograficamente distanti.
Tornano a Strasburgo, nei casi che giungono finalmente a una definizione davanti alla Corte dei diritti umani e che ci riportano a cosa avvenne a Genova, in termini peculiari per estensione, brutalità e scelta politica, a cosa avvenne ad Asti nelle celle di isolamento, a cosa avvenne nelle strade milanesi quando una persona fu rapita e portata, con l’acquiescenza, la complicità o quantomeno l’indifferenza dei nostri servizi, a essere interrogata nei luoghi di assenza del diritto e di brutale presenza della coercizione, in Egitto.
Ma, soprattutto tornano con quell’immagine non vista ma così drammaticamente intuibile di Giulio Regeni, consegnataci dalle parole di sua madre. Parole semplici, chiare che fanno percepire come l’immagine di una normalità positiva, ridente, di giovane aperto sia alla ricerca scientifica che all’impegno sociale e soprattutto aperto alla vita, sia stata tramutata nella maschera irriconoscibile prodotta dalla violenza di stato su un corpo inerme.
La tortura ha sempre una doppia «funzione»: informativa e politica. Ha una funzione informativa nel carpire le notizie utili all’ipotesi di chi interroga e l’adesione al proprio impianto d’indagine; nell’ottenere nomi, connessioni, elementi per altre inchieste: è la tortura che Beccaria respinse come tentativo di costruzione di una verità dei muscoli, basata sulla resistenza al supplizio. Ha una funzione politica nell’inviare attraverso la sua attuazione, la sua esibizione e l’impunità di chi la attua un messaggio intimidatorio volto ad affermare un potere assoluto e a reprimere sul nascere ogni tentativo di opposizione.
Le indagini che, dopo le prime grottesche e offensive ricostruzioni di comodo, le autorità egiziane dovranno concretizzare e che le autorità italiane dovranno pretendere, ci diranno chi e come ha attuato lo scempio di quella vita; quali compiacenze ci siano state, quali rapporti con il potere. Tuttavia ci sono almeno due aspetti che già da ora vanno sottolineati, anche senza attendere l’esito di una vero e completo accertamento.
Il primo riguarda il contesto di un apparato che ha assunto il potere attraverso un colpo di stato e che, come tale, è un interlocutore poco raccomandabile. Dovrebbe esserlo per i governi che con esso sembrano placidamente intrattenersi in virtù del suo ruolo di gendarme in una zona complessa. Ma anche per gli imprenditori che sembrano vederne la connotazione di garanzia di una stabilità, sia pure oscura e irrispettosa dei diritti umani, però utile ai propri investimenti. E infine per gli intellettuali e i giornalisti che, in ampie interviste, diffondono l’immagine di Abd al-Fattah al-Sisi quale «padre di famiglia» che farà di tutto per consegnare la verità sul massacro del giovane Giulio Regeni. Eppure tutti questi tre interlocutori, ai diversi livelli di responsabilità, non sembrano cogliere la gravità dell’implicita legittimazione che rischiano di dare all’attuale regime egiziano, alle sue azioni, all’ambiguità del ministro degli interni e alle fantasiose ricostruzioni dei suoi apparati.
Occorre mettere un punto fermo a tutto ciò. I genitori lo hanno fatto martedì con la loro conferenza stampa.
Ora spetta a tutti noi e al nostro governo. Perché come più volte si è doverosamente affermato in dichiarazioni di principio, il divieto della tortura non è «bilanciabile» con alcun altro principio, valore o criterio. Non è bilanciabile con la necessità della lotta al terrorismo; non è bilanciabile con la volontà di evitare pericoli imminenti – e questo lo abbiamo affermato tante volte in anni recenti per contrastare il tentennamento di alcuni interlocutori nel quadro internazionale dei primi anni di questo secolo.
Tantomeno è bilanciabile con l’interesse economico o con l’interesse politico-militare dell’avere una guardia in un territorio che in anni recenti ha mostrato potenzialità e instabilità. Perché bilanciare vuol dire essere complici. Anche per dimostrare, quindi, la fermezza nel rifiutare qualunque sensazione di arrendevolezza in tal senso, credo sia bene che il nostro ambasciatore venga richiamato per consultazione qui in Italia.
Fonte: il manifesto
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