di Roberto Ciccarelli
Neuro è un prefisso che va di moda. Giustifica la montagna di fondi che finanziano le ricerche sulle neuroscienze ed è il portatore di un progetto prometeico che accomuna la neurobiologia alle biotecnologia, alla farmacologia, alla genetica o alla cibernetica: separare la vita umana da se stessa per arrivare alla vita in sé dell’umano, il neuro-vivente, il materiale neurobiologico. Il neuro-vivente è capitalizzato in borsa dalle industrie farmaceutiche, giustifica investimenti colossali come lo «Human Technopole» nell’area Expo a Milano rispetto alla lenta agonia dell’università italiana; è lo schermo dove si proietta il film della metafisica contemporanea: la rinnovata credenza in un’essenza umana. Oggi nulla è più importante del bios, la vita in sé: da controllare, proteggere, potenziare, curare. O re-ingegnerizzare.
Questo è l’orizzonte delle neuroscienze descritto da Marco Pacioni inNeuroviventi (Mimesis, pp.136, euro 14), 25 brevi capitoli e una prefazione di Adriano Prosperi da leggere. Le neuroscienze sono un discorso utile al governo della popolazione. La loro caratteristica è identificare una presunta essenza della vita nel cervello. La vita e la storia del soggetto sono così ridotte alla sua identità somatica, al «sé neurochimico». Con un’espressione di Walter Benjamin, alla «nuda vita».
Di questo concetto centrale nel dibattito sulla biopolitica, Pacioni offre un’interessante ricostruzione. Il «sé neurochimico», l’iper-riduzione della vita al nudo contenuto biologico, è il cuore della politica attuale. Il «Sé» è una persona che si concepisce come individuo isolato, parla di sé, agisce su di sé. Questo è il risultato di una psicologizzazione dell’essere sociale e della riduzione della soggettività storica e morale al determinismo del soggetto individuo, della vita alla vita del cervello depositario di un’identità unica e irriproducibile.
L’inchiesta di Pacioni decostruisce la più vecchia delle metafisiche: le neuroscienze negano l’esistenza della storia, del divenire o delle relazioni e la sostituiscono con un’«ontologia operazionale» che riduce la vita alla somma delle operazioni neurochimiche o alle interazioni informazionali e cibernetiche del cervello. L’umano è identificato con il suo fare ed è reso «fungibile» in maniera integrale e assoluta. In questo modo si rovescia l’antropologia di Aristotele, secondo il quale l’uomo è un animale politico. L’uomo è invece un animale neurochimico che sostituisce la metafisica dell’identità con quella del cervello.
Queste sono le basi per definire il cittadino neoliberale incarnato dall’imprenditore di se stesso: il lavoratore del Jobs Act, il «creativo», il cervello automunito e self-made, lo startupperoe, il prodotto di successo sul mercato del lavoro. Neuroviventi di Pacioni va letto come l’antefatto necessario per comprendere la mentalità del legislatore infestata da ideologemi capitalisti.
L’imprenditore di se stesso è il cittadino del suo mondo, non è un cittadino del mondo. È il parlamento di se stesso, non una persona che rivendica i suoi diritti fondamentali. Nella finzione che ha colonizzato il discorso pubblico, egli non ha bisogno di questi diritti. Li trova in se stesso, nel suo «capitale umano». Li deve mettere all’opera. Se non lo fa è colpa sua, è un «fannullone» che non mette in azione le risorse «neuroetiche» presenti nella sua «essenza».
Questo è il cuore del discorso del neurocapitalismo, il dispositivo di governo della forza-lavoro e della cittadinanza. Oggi il capitalismo è gestione del capitale umano, anzi dell’umano ridotto all’unico capitale a disposizione al tempo del lavoro gratuito: se stesso. Pacioni invita a comprendere il concetto di «vivente». Con questa espressione intende la potenzialità imprevedibile di costituirsi da sé al cospetto degli altri, di cambiare e di potere essere altrimenti. Tutto quello che il dispositivo iper-riduzionista della scienza e della politica contemporanea cerca di cancellare. C’è vita oltre il prefisso neuro.
Fonte: il manifesto
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