di Gian Paolo Calchi Novati
Lo sbarco del governo Serraj in questi giorni a Tripoli ha rappresentato un fatto nuovo. Il futuro prossimo dirà se si tratta del terzo governo della Libia o del primo passo verso una ricomposizione del quadro istituzionale. Ci sono dubbi fondati sul «lieto fine» perché tutta la procedura fa capo a una decisione delle Nazioni unite, gestita senza una partecipazione alla pari fra tutti, e perché la procedura stessa non è stata accolta dai contendenti in loco con i necessari sentimenti di conciliazione.
Alla base dei contrasti, in aggiunta alle divisioni che risalgono alle due elezioni che si sono cristallizzate in due autorità rivali insediate a Tripoli e a Tobruk (un parlamento con un governo e una forza militare), c’è anche il modo con cui si è svolta la mediazione dell’Onu, prima con lo spagnolo Leon e poi con il tedesco Kobler. I due interlocutori per la parte libica erano le due autorità, ma Tobruk godeva di una specie di «legittimità» che mancava a Tripoli. I sofismi diplomatici arrivavano a prevedere che il riconoscimento formale del governo di unità nazionale spettava a Tobruk.
Tripoli avrebbe dovuto, si immagina, consentire più con i fatti che con le parole o i voti. Alla fine neppure Tobruk ha votato: solo 101 deputati (in un parlamento che conta quasi 250 membri) si sono detti favorevoli, ma uno a uno, senza nessuna formalità. Tripoli rischia di esprimere il suo rigetto con la resistenza passiva o – si è temuto e si teme ancora – con le armi.
Il passaggio dalle sessioni negoziali in paesi terzi al paese reale si presentava comunque difficile. Al di là delle rimostranze e delle idiosincrasie dei diretti interessati (a cui però non si può togliere la parola), c’erano troppe interferenze e troppi sottintesi. Il nuovo governo sarebbe stato percepito come un’istituzione «libica» o come il prodotto spurio di un’istanza internazionale probabilmente di parte? Un protettorato non è un punto d’arrivo stabile in una situazione così avvelenata. Formalmente era l’Onu ad agire, ma l’Onu, beffata di continuo dalle grandi potenze, ha un’immagine o scolorita o sospetta. Nella fattispecie non ha giovato alla autorevolezza e imparzialità di Fayez Serraj il riconoscimento che gli è stato elargito, prima dei responsi libici, da parte di un piccolo club di nazioni occidentali, fra cui l’Italia, già operative sul terreno, quale più e quale meno, con raids mirati e forze speciali. Ci si lamenta con chi evoca le ombre della guerra fredda, ma le azioni di Usa e compagni passano troppo spesso attraverso la Nato, strumento della guerra fredda per eccellenza.
In Libia la politica della Russia non ha lo stesso attivismo che l’ha caratterizzata in Siria. In Libia non c’è la complicazione della faida fra sunniti e sciiti che inevitabilmente porta in campo l’Iran con la sua ombra o i pasdaran. Si sa che, malgrado tutto, Russia e Iran finiscono per essere trattati dall’Occidente come «alieni». Paradossalmente, in Libia potrebbe pesare di più la rivalità fra le stesse potenze occidentali. Francia e Gran Bretagna sono impegnate nel compito ingrato di diluire la sensazione generalizzata che l’operazione anti-Gheddafi si sia tradotta in un disastro cercando nel contempo di difendere gli interessi che, in fondo, dal loro punto di vista, erano il vero obiettivo di quell’operazione.
Gli Stati Uniti, reticenti nel 2011, almeno Obama, finché il presidente non venne aggirato e trascinato dalla Clinton, allora segretario di stato, incalzano oggi gli alleati europei perché si espongano in prima persona cessando di dipendere dalla grande armata d’oltreoceano. L’Italia si aggiunse ex post al fronte bellico nel 2011, ma questa volta il governo italiano ha scalpitato per essere il primus inter pares (o meglio ancora fra dispari), salvo riproporre titubanze e retromarce per una specie di riflesso condizionato del genere horror vacui.
Le pressioni di chi vorrebbe chiudere al più presto la partita Libia si sono fatte più incalzanti dopo due eventi recenti: gli attentati di Bruxelles e le peripezie dell’emigrazione nel quadrante balcanico. L’Isis incombente in Europa ha drammatizzato la «minaccia» rappresentata dall’insediamento dello stato islamico nell’avamposto di Sirte. D’altra parte, l’abborracciato provvedimento dell’Unione Europea per chiudere il varco turco all’emigrazione che preme dalla Siria e dal Medio Oriente fa temere che si rilanci a pieno regime la via di fuga in partenza dalla coste libiche. I due argomenti, se riferiti alla Libia, sono deboli in sé, ma fanno scalpore in un’opinione pubblica poco propensa a ragionare.
La distanza geografica dalle centrali operative – sempre ammesso che gli atti più propriamente terroristici siano veramente approvati e coordinati dalle capitali del Daesh come quasi stato, a cui si aggiungerebbe Sirte – non è decisiva visto che gli agenti operativi sono in Europa. Quanto ai profughi che si affollano sulle coste libiche, nessuno ha ancora spiegato come un intervento militare saprà poi barcamenarsi fra una massa di africani, nella maggioranza non libici, arrivati in Libia o per trovare un lavoro che adesso certamente non c’è più o è loro precluso o perché fuggiti dai paesi di origine, per lo più a sud del Sahara o nel Corno, sconvolti da conflitti che si sono ulteriormente aggravati anche per il collasso della Libia.
L’errore fatale sarebbe di scambiare la Libia, con i suoi problemi già pesantissimi, per l’Isis o l’emigrazione. L’opinione pubblica internazionale e in particolare europea, a cominciare da quella italiana, non è familiare con le vicende interne della storia libica. Ma la politica si comporta come se le conoscesse. In realtà. persino la semplicistica contrapposizione fra Cirenaica e Tripolitania ha perso in parte la sua incidenza rispetto ad altre divisioni che si identificano con le milizie, le tribù e le cabile. C’è un sovraccarico di responsabilità e in ultima analisi di colpe se si perde di vista la condizione istituzionale e geopolitica della Libia per finalità che la scavalcano o che la prendono semplicemente come terreno di prova.
Fonte: il manifesto
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