di Green Report
«Dalle dimissioni del ministro Guidi di ieri il tema petrolio e appalti è su tutte le pagine dei giornali per i suoi aspetti di illegalità, ma mi sento di dire, proprio oggi, che è anche il sistema assolutamente legittimo con cui si gestisce il settore estrattivo che è pieno di opacità e di privilegi che fa dell’Italia un paradiso fiscale per le aziende petrolifere. Un sistema che andrebbe riformato facendo pagare il dovuto, valutando i costi delle ricadute ambientali e sulla salute».
È quanto ha spiegato Dante Caserta, vicepresidente del Wwf Italia al convegno “Oltre le trivelle, un mare di risorse”, dettagliando i confini di un Paese – il nostro – che somiglia a un paradiso fiscale in salsa petrolifera.
«In Italia non esiste una tassazione specifica sulle imprese petrolifere ma solo l’imposta Ires al 27,5% come per tutte le altre aziende. Il sistema delle franchigie, delle esenzioni esistente nel nostro Paese (sino a 50mila tonnellate di petrolio e 80 milioni di smc estratte in mare) porta, come il Wwf ha documentato, al bel risultato che le royalty vengano pagate solo per 18 (il 21%) delle 69 concessioni in mare e per 22 delle 133 concessioni attive a terra. Solo 8 aziende su 53 pagano le royalty. I canoni annui per le attività di trivellazione in terra e in mare vanno da 3,59 euro per Kmq del permesso di prospezione, ai 57,47 euro per Kmq per la concessione (che diventano 86,2 euro solo in caso di proroga). Poi ci sono una serie di sussidi; si dà un incentivo pubblico del 40% per le attività di rilevamento geofisico; si incentivano i giacimenti marginali, meno produttivi; si incentiva la conversione a stoccaggio di gas naturale degli impianti in fase avanzata di coltivazione. Si potrebbe dire: il rischio di impresa è contenuto, solo l’ambiente è ad alto rischio».
«In Italia non esiste una tassazione specifica sulle imprese petrolifere ma solo l’imposta Ires al 27,5% come per tutte le altre aziende. Il sistema delle franchigie, delle esenzioni esistente nel nostro Paese (sino a 50mila tonnellate di petrolio e 80 milioni di smc estratte in mare) porta, come il Wwf ha documentato, al bel risultato che le royalty vengano pagate solo per 18 (il 21%) delle 69 concessioni in mare e per 22 delle 133 concessioni attive a terra. Solo 8 aziende su 53 pagano le royalty. I canoni annui per le attività di trivellazione in terra e in mare vanno da 3,59 euro per Kmq del permesso di prospezione, ai 57,47 euro per Kmq per la concessione (che diventano 86,2 euro solo in caso di proroga). Poi ci sono una serie di sussidi; si dà un incentivo pubblico del 40% per le attività di rilevamento geofisico; si incentivano i giacimenti marginali, meno produttivi; si incentiva la conversione a stoccaggio di gas naturale degli impianti in fase avanzata di coltivazione. Si potrebbe dire: il rischio di impresa è contenuto, solo l’ambiente è ad alto rischio».
Uno scenario che conferma anche il dossier di Greenpeace “Vecchie spilorce”, pubblicato oggi. Analizzando i dati presenti sul sito del ministero per lo Sviluppo economico (presieduto dalla dimissionaria Federica Guidi) relativi alla produzione delle piattaforme oggetto del referendum del prossimo 17 aprile, gli ambientalisti notano come ben il 73% delle piattaforme situate entro le 12 miglia marine dalle coste italiane siano oggi non operative, non eroganti o eroghino così poco da non versare neppure un centesimo di royalty alle casse pubbliche.
Nel dettaglio, riportano da Greenpeace, solo 24 piattaforme (di cui una di supporto) operano abitualmente estraendo idrocarburi al di sopra della franchigia: rappresentano appena il 27% delle piattaforme entro le 12 miglia. Greenpeace ne deduce che è urgente smantellare le altre 64 strutture – alcune vecchie più di 40 anni – che hanno palesemente esaurito il loro ciclo di produzione e che devono essere rimosse prima che il mare e la ruggine provochino cedimenti nella struttura, con il rischio di causare disastri ambientali.
«È questo il comparto strategico che Renzi e il fronte astensionista difendono?», si domanda con amara ironia Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e clima di Greenpeace. «Il 17 aprile – conclude – votando Sì possiamo dare un termine certo alla presenza di questi inutili dinosauri nei nostri mari».
Fonte: Green Report
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