di Luigi Pandolfi
Questa Europa costituisce il compimento del post-moderno in ambito politico-istituzionale ed economico. Letteralmente, di ciò che “viene dopo”. Dopo la stagione in cui lo Stato ha tentato di “contenere” e governare il capitalismo, di addomesticarne le crisi, mediante la politica economica, la programmazione, l’intervento pubblico in economia. D’altro canto, per tutto il secolo XIX e parte degli anni venti, per dirla con James K. Galbraith, «il grande problema del capitalismo era stato la crescente gravità dei cicli economici, tra rapide espansioni e dure recessioni», alle quali, salvando il capitalismo stesso, si era reagito, per l’appunto, con l’interventismo pubblico ed il welfare state.
Nondimeno, nella storia economica contemporanea, con la crisi del ’29 che ha segnato una nuova svolta in tal senso, l'azione degli Stati in ambito economico non si è mai dispiegata isolatamente, bensì “in concorso” con le banche centrali, autorità monetarie nazionali, “strumentalmente” legate al potere politico.
Quali sono gli strumenti della politica economica? Senz’altro la spesa pubblica, la base monetaria e l’offerta di moneta, la leva fiscale; tra i suoi obiettivi, invece, la piena occupazione, i redditi, la perequazione sociale, lo sviluppo industriale, ma anche la stabilità dei prezzi, l’equilibrio delle bilance commerciali. Evidentemente, il raggiungimento di questi obiettivi richiede almeno due attori - governi e banche centrali - e un mix di politiche fiscali e monetarie (e/o valutarie). Ma questo in Europa (eurozona) non è possibile, perché la banca centrale (BCE) è stata “denazionalizzata” e gli Stati vi si rapportano in condizione di formale subalternità.
E’ la logica dell’ideologia neo-liberista, secondo cui gli Stati devono essere messi nella condizione di non nuocere all’economia, perché già da sé essa è capace di assicurare il necessario equilibrio negli scambi ed una razionale allocazione delle risorse (teoria dei mercati efficienti). Come raggiungere questo obiettivo? Per l’appunto, spezzando il rapporto tra autorità politica ed autorità monetaria.
Questo assunto, già alla base dei “divorzi” tra governi e banche centrali nazionali, ha trovato un’applicazione “radicale” in Europa, con la trans-nazionalizzazione della banca centrale, facendo della stessa un’entità totalmente indipendente dal potere politico. Non solo. In Europa sono stati “sterilizzati” anche gli altri due strumenti a disposizione degli Stati per le loro strategie di breve, medio o lungo termine: la politica valutaria e quella di bilancio o fiscale. La prima è inibita dalla moneta unica, la seconda dal vincolo del pareggio di bilancio.
Il limite di questo modello è venuto fuori in tutta la sua gravità in questi anni, segnati da una crisi sistemica e di lunga durata. Gli Stati, impossibilitati a praticare politiche fiscali espansive in funzione anti-ciclica, fino a marzo del 2014, sono rimasti semplicemente in attesa che il “bazooka” di Draghi sparasse il primo colpo. A distanza di un anno, però, il risultato è che l’Europa è tornata in deflazione, mentre i disoccupati sono ormai 25 milioni (19 in eurozona).
Cos’è successo? Molto semplicemente che l’immissione nel sistema di quasi 800 miliardi di euro, non ha finora minimamente smosso l’economia dell’eurozona.
Eppure, bastava il recente caso statunitense per rendersi conto che queste misure, oltre ad una discesa dei tassi di interesse e ad un deprezzamento della moneta unica, non avrebbero mai determinato, da sole, una ripresa dell'inflazione, quindi della domanda interna e dell’occupazione.
Nonostante tutto, la Bce ha deciso di ampliare il volume di acquisti del Quantitative easing da 60 ad 80 miliardi di euro mensili. La logica, rispetto ad un anno fa, rimane, sostanzialmente, la stessa. Cambia soltanto che le banche avranno ancora più denaro, che, sicuramente, rimarrà per gran parte “intrappolato” nella sfera separata dell’economia di carta.
Stiamo parlando di una gigantesca movimentazione di denaro, ma ad un livello distante anni luce dalla materialità della vita dei cittadini. Quella materialità della vita che, invece, rimane pesantemente condizionata dalle ristrettezze imposte ai bilanci pubblici dal Patto di Stabilità.
Ma se uno Stato non può influire sulla politica monetaria, né può svalutare la propria moneta e fare spesa in deficit - in pratica è privato di tutti gli strumenti della politica economica -, come può far fronte ai problemi dell’economia e della società? Gli restano le tasse, i salari dei lavoratori, i tagli alla spesa sociale e la svendita del patrimonio pubblico. In altri termini, può sempre scaricare sui ceti più deboli il costo delle crisi e, più in generale, dalla competitività, com’è accaduto massicciamente in questi ultimi anni.
Articolo pubblicato su Avgi, giornale di Syriza
Fonte: pagina Facebook dell'Autore
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