di Luigi Pandolfi
Il ministro Padoan ha ragione quando afferma che lo sforzo di aggiustamento dei conti pubblici chiesto dall’Ue all’Italia è «deformato da considerazioni statistiche». Ed ha ancora più ragione quando sottolinea che le attuali regole del Patto di Stabilità danneggiano «maggiormente» il nostro Paese. Paradossalmente, proprio le nuove regole di bilancio europee, introdotte a partire dal 2005 per rendere meno rigidi i parametri del Patto di Stabilità e Crescita, hanno finito per complicare ulteriormente le cose, imponendo agli Stati membri dell’eurozona obiettivi di finanza pubblica spesso scollegati dal quadro macroeconomico di riferimento.
Oggi, infatti, quando si parla di pareggio di bilancio, non si fa più riferimento al semplice rapporto tra deficit nominale e Prodotto lordo (la vecchia regola del 3%) ma al cosiddetto «saldo strutturale». Di cosa parliamo?
Molto sinteticamente, del rapporto tra entrate ed uscite dello Stato al netto degli effetti del ciclo economico e delle misure una tantum e temporanee che, per loro natura, hanno solo effetti transitori sul bilancio. In altri termini, si è preteso di stabilire una relazione tra vincoli di finanza pubblica ed andamento dell’economia, per evitare che le manovre di aggiustamento producessero effetti recessivi.
Molto sinteticamente, del rapporto tra entrate ed uscite dello Stato al netto degli effetti del ciclo economico e delle misure una tantum e temporanee che, per loro natura, hanno solo effetti transitori sul bilancio. In altri termini, si è preteso di stabilire una relazione tra vincoli di finanza pubblica ed andamento dell’economia, per evitare che le manovre di aggiustamento producessero effetti recessivi.
Ma come si stabilisce il «peso» della componente ciclica nel calcolo del deficit? Qui le cose iniziano a complicarsi, perché entra in gioco una componente non più reale ma «potenziale», nota anche come output gap, data dalla differenza tra crescita potenziale e crescita effettivamente realizzata da ogni singolo paese. In pratica, si fa la differenza tra il Pil effettivo e il Pil potenziale e il risultato viene moltiplicato per un «parametro di aggiustamento ciclico», che per l’Italia è fissato a 0,55. Ma come si calcola la differenza tra un dato reale e un dato potenziale? E poi: in base a cosa si è stabilito il valore del cosiddetto «parametro di aggiustamento»? Potenza della matematica, o che cosa? Bè, diciamola con Pier Carlo Padoan: «Considerazioni statistiche», niente di più.
A vederci bene, però, con le attuali regole di bilancio europee, si chiedono sacrifici reali in base a grandezze ipotetiche, qual è, per l’appunto, il Pil «potenziale» di un paese, nei documenti ufficiali definito come «il prodotto che si otterrebbe con il massimo impiego possibile dei fattori produttivi (capitale e lavoro) in assenza di spinte inflazionistiche». E’ come dire: lo sforzo che ogni paese deve sopportare per migliorare i propri conti pubblici è calcolato sulla base della distanza che intercorre tra le condizioni attuali della sua economia e quelle che deriverebbero dal suo essere più efficiente, più virtuoso, più competitivo. Per estensione, una distanza (imponderabile) tra condizioni materiali di vita di milioni di persone in carne ed ossa e scenari futuribili o, piuttosto, del tutto immaginari.
Per un Paese come l’Italia, sarebbe come dire che il grado di flessibilità invocata dal governo dipenderebbe dal differenziale tra l’attuale quadro di stagnazione (+ 0,3% nel primo trimestre 2016) e quello che si potrebbe avere se l’economia girasse a pieno ritmo, se non ci fosse disoccupazione e tutti vivessimo felici e contenti. Non sappiamo se i ministri economici dell’area euro siano muniti di palla di vetro, certamente da queste regole si evince tutta l’insostenibilità di questo modello di integrazione, basato sulla mistica dei numeri e sulla funzione predittiva dei modelli matematici, ovvero, per essere più precisi, sulla parvenza scientifica di scelte politiche arbitrarie e ideologicamente ben orientate.
Il problema, in ogni caso, è che le stime del Pil potenziale italiano da parte dall’Ue sono per così dire al ribasso e questo comporta meno sconti sul versante dei conti pubblici, col rischio, peraltro, che venga aperta nei confronti del nostro Paese una nuova procedura di infrazione per deficit eccessivo.
Padoan ha ragione, quindi. Ma il suo lamento tale è destinato a rimanere. «L’Italia rispetterà lo sforzo di aggiustamento che le è richiesto», è infatti la sua conclusione, perché «non si cambiano le regole durante il gioco». Amen.
Fonte: il manifesto
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