di Francesco Pallante
In queste prime settimane di dibattiti sulle riforme, volti a informare la cittadinanza, due argomenti tornano con una certa frequenza nei discorsi dei sostenitori del Sì: (1) che non si può giudicare il progetto di revisione della Costituzione alla luce della nuova legge elettorale; (2) che, in ogni caso, la contrarietà alla riforme è frutto di una presa di posizione «ideologica». Si tratta di due argomenti inconsistenti ma potenzialmente insidiosi, sui quali vale la pena di soffermarsi.
Il primo argomento ammette implicitamente l’indifendibilità di un sistema basato sulla revisione costituzionale in atto e sull’Italicum, e cerca di preservare comunque la revisione costituzionale sostenendo che, con una diversa legge elettorale, la forma di governo potrebbe risultare meno squilibrata a favore dell’esecutivo.
Per quanto improbabile (visto lo stretto legame instaurato dal governo stesso tra i due provvedimenti), naturalmente ciò è astrattamente possibile: è ovvio, per esempio, che una legge elettorale proporzionale renderebbe meno salda la presa dell’esecutivo sul sistema. Difficile, tuttavia, sentirsi rassicurati. E non tanto perché un’ipotesi remota ben poco può contro una realtà imminente. Quanto, piuttosto, perché si tratta di un modo di ragionare che si colloca al di fuori della logica del costituzionalismo. Se è vero, infatti, che il costituzionalismo nasce, nell’ambito della filosofia politica, come corrente di pensiero che, rifuggendo ogni assolutismo, propugna la separazione e la limitazione del potere a tutela dei diritti dei cittadini, ne consegue necessariamente che una buona costituzione non è quella che protegge i cittadini quando tutto va bene, ma, al contrario, quella che protegge i cittadini quando tutto va male. Facile dire che non si verificano pericolose concentrazioni di potere quando non ci sono i presupposti per concentrare il potere; il difficile è riuscire a dire lo stesso quando quei presupposti si verificano. Negli anni passati, la Costituzione vigente ha saputo, sia pur con molte difficoltà, impedire che forze politiche ampiamente venate da autoritarismi di destra avessero mano libera nel governare il Paese. E se oggi la stessa Costituzione non riesce a fare altrettanto contro le pulsioni del governo in carica, è perché è stata violata da un parlamento eletto con una legge ampiamente censurata dalla Corte costituzionale. Se il partito democratico non avesse potuto godere dell’illegittimo raddoppio dei seggi conquistati nelle urne grazie al Porcellum, oggi non saremmo qui a discutere di revisione costituzionale. In definitiva, non solo il primo argomento del fronte del Sì non vale realmente a sostenerne le ragioni, ma è, all’inverso, un’altra freccia nella faretra dei sostenitori del No, dimostrando che la revisione costituzionale del governo fallisce proprio laddove non devono fallire le costituzioni: nella peggiore delle ipotesi – la più delicata e pericolosa – non impedisce la concentrazione del potere. Dunque: tecnicamente, non è una costituzione.
Per quanto improbabile (visto lo stretto legame instaurato dal governo stesso tra i due provvedimenti), naturalmente ciò è astrattamente possibile: è ovvio, per esempio, che una legge elettorale proporzionale renderebbe meno salda la presa dell’esecutivo sul sistema. Difficile, tuttavia, sentirsi rassicurati. E non tanto perché un’ipotesi remota ben poco può contro una realtà imminente. Quanto, piuttosto, perché si tratta di un modo di ragionare che si colloca al di fuori della logica del costituzionalismo. Se è vero, infatti, che il costituzionalismo nasce, nell’ambito della filosofia politica, come corrente di pensiero che, rifuggendo ogni assolutismo, propugna la separazione e la limitazione del potere a tutela dei diritti dei cittadini, ne consegue necessariamente che una buona costituzione non è quella che protegge i cittadini quando tutto va bene, ma, al contrario, quella che protegge i cittadini quando tutto va male. Facile dire che non si verificano pericolose concentrazioni di potere quando non ci sono i presupposti per concentrare il potere; il difficile è riuscire a dire lo stesso quando quei presupposti si verificano. Negli anni passati, la Costituzione vigente ha saputo, sia pur con molte difficoltà, impedire che forze politiche ampiamente venate da autoritarismi di destra avessero mano libera nel governare il Paese. E se oggi la stessa Costituzione non riesce a fare altrettanto contro le pulsioni del governo in carica, è perché è stata violata da un parlamento eletto con una legge ampiamente censurata dalla Corte costituzionale. Se il partito democratico non avesse potuto godere dell’illegittimo raddoppio dei seggi conquistati nelle urne grazie al Porcellum, oggi non saremmo qui a discutere di revisione costituzionale. In definitiva, non solo il primo argomento del fronte del Sì non vale realmente a sostenerne le ragioni, ma è, all’inverso, un’altra freccia nella faretra dei sostenitori del No, dimostrando che la revisione costituzionale del governo fallisce proprio laddove non devono fallire le costituzioni: nella peggiore delle ipotesi – la più delicata e pericolosa – non impedisce la concentrazione del potere. Dunque: tecnicamente, non è una costituzione.
Il secondo argomento ritiene, invece, di poter screditare chi si oppone alle riforme non controbattendo alle critiche nel merito, ma bollandole come frutto di un pregiudizio «ideologico». Ora, anche a sorvolare su quanto di ideologico vi sia nell’utilizzo in senso denigratorio della parola «ideologia», risulta difficile capire quale sia questa inaccettabile ideologia che oscurerebbe la ragione dei sostenitori del No. I numerosi contributi pubblici proposti dai critici insistono, forse fin troppo doviziosamente, sui difetti di queste riforme: l’abnorme premio di maggioranza, la mancanza di una soglia minima per l’accesso al ballottaggio, il finto (o comunque molto parziale) ritorno delle preferenze, la contraddittoria composizione del senato, l’assurda complicazione del procedimento legislativo, l’ingerenza del governo nell’agenda parlamentare, l’abbassamento della maggioranza richiesta per eleggere il presidente della Repubblica, ecc. Questo atteggiamento sarebbe «ideologico»? Affrontare il merito delle riforme e denunciarne le gravissime debolezze? La cosa davvero curiosa, peraltro, è che proprio i fautori dell’accusa di ideologismo si ritrovano sovente ad affermare che le riforme vadano comunque sostenute, nonostante i loro innegabili limiti, perché l’Italia è da troppo tempo vittima del proprio immobilismo ed è necessario dare un segnale di cambiamento, quale esso sia. Ora, facili ironie a parte (anche introdurre una teocrazia sul modello iraniano sarebbe un rinnovamento…), la domanda diventa inevitabile: e il culto del cambiamento a tutti i costi, la celebrazione delle riforme in quanto tali, l’idea che il nuovo è comunque meglio del vecchio: tutto ciò non è, invece, frutto di un pregiudizio ideologico?
Che le cose, in Italia, vadano male è fuor di dubbio. Che la colpa sia della Costituzione pare, invece, ancora tutto da dimostrare.
Fonte: il manifesto
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