di Roberta Carlini
I numeri sono di gran moda sulla scena pubblica, negli ultimi tempi. Anche se il premier ha smesso di twittare a ripetizione i dati sul lavoro – da quando si sono ridotti gli incentivi e con essi le assunzioni – quel che è successo lo scorso anno ha reso evidente a tutti l’importanza di una informazione corretta e una produzione statistica ufficiale, indipendente, accurata. Per questo quando il presidente dell’Istat Giorgio Alleva ha chiesto e ottenuto un coordinamento delle fonti, gli addetti ai lavori e gli operatori dell’informazione hanno tirato un sospiro di sollievo: c’è un limite alla propaganda, o almeno c’è la possibilità di tirare una linea tra la (legittima) comunicazione politica e quella statistica ufficiale.
Questo per dire che quel che succede all’Istat è di importanza cruciale, non solo per gli esperti ma per tutti. Come anche pagina99 ha scritto qualche settimana fa (nel numero del 12 marzo), il nostro Istituto nazionale di statistica è in piena ristrutturazione, con il passaggio “dalle indagini ai registri”.
Vale a dire che ci si concentrerà di più su un migliore utilizzo dei dati amministrativi – quelli dei registri. Dai quali risulta però l’emerso, il registrato appunto, non il sommerso, non le intenzioni, non i fenomeni sociali che non hanno un passaggio amministrativo.
Vale a dire che ci si concentrerà di più su un migliore utilizzo dei dati amministrativi – quelli dei registri. Dai quali risulta però l’emerso, il registrato appunto, non il sommerso, non le intenzioni, non i fenomeni sociali che non hanno un passaggio amministrativo.
Esempio: registrare la violenza sulle donne che viene denunciata ai carabinieri o va a processo è cosa ben diversa dall’indagare – con indagini a campione – su quella c’è davvero. Altro esempio: dalle indagini Istat si sa quante donne sono state costrette a firmare dimissioni in bianco al momento delle assunzioni, fenomeno che di per sé non poteva risultare dagli atti del ministero del lavoro. È anche per questa conoscenza che i governi si sono mossi – a corrente alternata – sulla questione delle dimissioni in bianco.
Ma a chi vedeva nella “modernizzazione” dell’Istat un ridimensionamento o penalizzazione delle indagini che ci hanno fatto conoscere il Paese (si veda quest’articolo di Chiara Saraceno), il suo presidente ha risposto che le cose non stanno così, e che un miglior uso dei registri non può che migliorare anche le indagini. In altri termini, rispondere con la tecnologia e la conoscenza che abbiamo dai dati ufficiali a quella “crisi delle survey” che è stata spesso messa sotto la lente (si veda per esempio l’articolo Household Surveys in Crisis, sul n. 4/2915 del Journal of Economic Perspectives).
Nel servizio che abbiamo fatto su pagina99, l’ex presidente dell’Istat Enrico Giovannini notava che, se la tendenza a integrare indagini e registri è ormai assodata e anche ovvia, “tutto dipende da quante risorse si vogliono assegnare alla funzione statistica: con meno fondi, si tratterebbe di una scelta difensiva, non migliorativa”.
Ma le funzioni spesso viaggiano sulle gambe delle persone. E non c’è nessuno, nel mondo dell’informazione economica e sociale, che nel documentarsi sui dati non abbia incrociato la persona che ha messo su le Indagini multiscopo dell’Istat e costruito, dal niente, la statistica di genere e gli indicatori del benessere economico e sociale: Linda Laura Sabbadini, unica statistica inserita tra le 100 eccellenze italiane, nominata commendatore dall’allora presidente Ciampi, un lungo cv di incarichi italiani e internazionali.
Molti la considerano una pioniera, di certo è stata un personaggio di primo piano nell’istituto e nella statistica italiana. Ma è stata scartata dalla selezione per i nuovi vertici apicali, non sarà più né direttore di dipartimento né direttore centrale. L’estromissione della Sabbadini ha causato parecchie reazioni, dalla vicepresidente del senato Valeria Fedeli a molte esponenti della ricerca in particolare sui temi di genere.
Difficile, da fuori, valutare i criteri di merito ed entrare nelle questioni organizzative interne di un istituto complesso; ma è anche difficile capire il perché di questa scelta, e rassicurarsi sul fatto che la rottura di continuità non vada a scapito delle informazioni sul sociale e sui relativi investimenti in termini di risorse, competenze e profondità.
Fonte: Pagina99
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