di Christian Raimo
Di recente sono usciti un paio di interessanti dati che raccontano il mondo del lavoro in Italia. Il primo è il numero di voucher usati nel 2015: 115 milioni circa, più del 64 per cento rispetto all’anno precedente. I voucher sono dei “buoni lavoro”, dei biglietti del valore di dieci euro per pagare il cosiddetto lavoro accessorio, quello non riconducibile a contratti di lavoro perché effettuato in modo saltuario.
I voucher hanno il vantaggio per il committente di includere una copertura assicurativa, e lo svantaggio per chi lavora di non accedere a disoccupazione, maternità, malattia, assegni familiari, eccetera. L’intento – a detta del governo – era di far emergere il lavoro nero. Il risultato sembra quello di aver reso legale e diffusissimo il cottimo anche per lavori che non avevano alcuna caratteristica di “accessorietà”.
Il secondo dato interessante riguarda il piano nazionale garanzia giovani, rivolto a tutte le persone tra 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnate in nessun percorso formativo (i cosiddetti neet – not in education, employment or training) e finanziato in maniera molto generosa dalla comunità europea (più di 1,5 miliardi di euro).
Confini labili
In quasi due anni di attività – è partito nel maggio 2014 – al piano si sono iscritte più di 850mila persone, di queste finora ha trovato lavoro circa il 3,7 per cento, come riporta La Stampa. La maggior parte dei fondi è stata spesa per tirocini (pagati in gran parte sempre dal piano) che non si sono trasformati in contratti, per corsi di formazione che in molti casi sono stati considerati non qualificanti e che spesso non hanno avuto iscritti, senza contare che spesso – negli ultimi mesi – ci sono stati lunghi ritardi o mancanze nei pagamenti. Lo strumento che doveva servire a contrastare la disoccupazione giovanile sembra essersi trasformato in una scuola di precariato.
La maggior parte delle persone che sono pagate con i voucher o sono inserite nel piano garanzia giovani è sfruttata o precarizzata. Probabilmente nessuna di loro potrebbe affermare di avere un lavoro, forse qualcuna potrebbe dire di lavorare ogni tanto, o di avere “un lavoretto”.
Del resto, che cos’è lavoro e cosa non lo è? Sarebbe interessante contare quante volte nella giornata usiamo espressioni come “sto lavorando”, “sono al lavoro”, “devo lavorare”, eccetera. Molte delle occasioni in cui si pronuncia una frase del genere non corrispondono a un’attività regolata da un contratto. Io stesso dico “sto lavorando” quando sono a insegnare ai ragazzi a scuola (contratto), quando sto scrivendo un pezzo per il mio blog (non contratto), quando sto leggendo un libro che forse mi servirà per aggiornarmi (contratto?). Lo stesso riguarda situazioni di lavoro meno definibili, tipo le casalinghe che escono per la spesa, chi dà ripetizioni al nipote, lo studente che sta facendo una ricerca di gruppo.
È altrettanto indefinibile quell’universo che sta tra il lavoro e la formazione. Ecco allora che ci si chiede quanto servono a formarsi, quanto sono lavoro, questi dispositivi “frankensteiniani” tipo garanzia giovani, i voucher per il lavoro “accessorio” e pagati in ritardo, gli stage per lavori che già sappiamo fare, i tirocini da 40 ore settimanali, l’alternanza scuola lavoro. Quanto alle volte sono semplicemente lavoro non pagato e sfruttamento non formativo?
L’autorappresentazione dei confini del lavoro è molto labile: è un insieme ovviamente molto più grande di ciò che è contrattualizzato, ma è un insieme che non coincide nemmeno con ciò che può portare reddito.
Faccio un esempio: quando devo spiegare il marxismo ai miei studenti a scuola, gli parlo di Facebook. Quanto vale Facebook in borsa? Mettiamo per approssimazione cento miliardi di dollari. Quanti iscritti ci sono su Facebook? Mettiamo per approssimazione un miliardo. Questo cosa vuol dire? Che ogni iscritto a Facebook produce di media un valore di cento dollari.
Se – poniamo caso – metà degli iscritti a Facebook domani decidesse di migrare su un nuovo più strabiliante social network, ecco che di colpo, probabilmente, il valore di Facebook si dimezzerebbe. Questo vuol dire che il tempo che passiamo su Facebook, su Google, su Twitter, eccetera, è un tempo che produce reddito che non ci viene riconosciuto – è plusvalore dato dal nostro pluslavoro, per usare categorie un po’ desuete.
Chi volesse mettere mano a una nuova legislazione sul lavoro dovrebbe tenere conto di queste trasformazioni. Dovrebbe capire come ridistribuire questo reddito, e come allargare il più possibile a tutti le forme di tutela che oggi sono appannaggio di una parte. Malattia, maternità, aspettative, eccetera.
E non si può dire che il jobs act non si sia confrontato con questo paesaggio così mutato. Il punto è che invece di capire come tutelare quelle forme di lavoro più plastico e meno definibile attraverso delle chiare forme contrattuali, si è scelta la strada opposta: si è pensato di rendere più deboli le tutele che già esistevano – riducendo quello che finora abbiamo considerato lavoro a una specie di “attività”, di “prestazione” occasionalissima.
Se la riforma Treu aveva provato con molti obbrobri concettuali e linguistici a venire incontro a una frammentazione delle forme di lavoro, creando dei mostri come i contratti di collaborazione a progetto (cocopro), il jobs act ha eliminato l’articolo 18 e trasformato la possibilità di licenziamento in un inconveniente da gestire con un po’ di indennizzo. Di fatto ha scelto di liberarsi di un senso di colpa, che almeno aveva mascherato la diminuzione dei diritti in una specie di tentativo rabberciato di difenderne il valore almeno sul piano formale.
Semplice prestazione
Il jobs act no: Renzi e Poletti hanno sostenuto senza più pudore che la vecchia normativa era ideologia, e che il sol dell’avvenire che non avevamo voluto inseguire finora è invece sorto senza che ce ne accorgessimo, e si chiama flessibilità in uscita.
Con gli sgravi fiscali, la possibilità di licenziare senza giusta causa e la trovata dei voucher, è facile vedere come non sia stato cambiato semplicemente l’aspetto legislativo, ma sia stato trasformato lo stesso contesto in cui si parla di lavoro. Il lavoro è una semplice prestazione – posso fruirne, poi posso smettere di fruirne: la prospettiva di cui tengo conto non è mai quella del lavoratore, ma quella dell’azienda che si serve di questa prestazione.
Questa concezione che toglie al lavoro l’aspetto identitario (il lavoro non è più ciò che struttura la mia identità di persona, ma una prestazione tra le altre, meno di un cottimo) fa sua la plasticità della definizione di ciò che è lavoro e ciò che non lo è, ma si sottrae dall’immaginare un mondo diverso in cui pensare tutela e dignità anche per chi non è contrattualizzato, è in formazione oppure è disoccupato.
Queste sono le gravi responsabilità di chi ha concepito questa legge. Dall’altra però ci sono anche quelle di chi in questi anni ha pensato che tra le reliquie del novecento ci fosse anche il sindacato. Può essere paradigmatico che Paola Regeni, madre di Giulio Regeni, qualche giorno fa alla conferenza stampa in senato, abbia ricordato: “Giulio era andato in Egitto per fare ricerca sul sindacato. Oggi se uno dice sindacato, sembra quasi che dica una brutta parola”.
Con un po’ di spietata tenerezza uno alle volte si chiede perché esista una generazione di persone che, in nome di una parvenza di riconoscimento sociale, accettano di scrivere per un giornale a tre euro al pezzo, diinsegnare a centinaia di studenti all’università per un euro al semestre, si dannano l’anima per un dottorato senza borsa, oppure non battono ciglio di fronte alla proposta di pagarsi di tasca loro un tirocinio.
È anche questa allucinazione di massa ad aver fatto sì che oggi la rivendicazione di diritti, la sindacalizzazione, siano pratiche obsolete, se non inimmaginate. Quello che si vuole, spesso, non sono né soldi né diritti, ma uno status. Il feticcio dello status è ciò che ha compensato l’assenza di una forma di coscienza di classe seppure embrionale. È incredibile come questa generazione di lavoratori precari, iperflessibili, sfruttati e senza futuro, condivida una condizione così comune – una condizione che è quasi un tono emotivo per quanto è specifico: un basso depressivo di rassegnazione – e non riesca a trovare il modo di organizzarsi politicamente.
Fonte: Internazionale
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