di Elettra Deiana
La Francia ha respinto la proposta del presidente Hollande di modificare la Costituzione inscrivendovi lo stato di emergenza e il conseguente depotenziamento dello stato di diritto, attraverso la revoca della cittadinanza a chi, di “etnos” non francese, islamici insomma si rendesse responsabile di atti di terrorismo. Su questo punto, la prima versione era stata secca, senza eccezioni. Ma poiché la decisione strideva con una norma del diritto internazionale, che vieta di ridurre una persona allo stato di apolide, il governo, con un voto passato in un primo momento nel solo Senato, aveva modificato la norma, rendendone oggetto solo chi fosse dotato di doppia cittadinanza. Già mesi fa il Consiglio di Stato si era fatto decisamente carico della decisione del governo, respingendo il ricorso della Lega francese per la difesa dei diritti dell’uomo.
Tuttavia nella norma c’era il difetto di essere in contrasto col principio dell’égalité, poiché la cittadinanza binaria creava una doppia categoria di cittadini, diversamente punibili a parità di crimini.
Tutto questo è avvenuto in uno dei Paesi chiave dell’Europa, orgoglioso della sua tradizione repubblicana e dei principi ordinamentali che lo guidano. Ed è avvenuto in nome della sicurezza:security state versus stato di diritto, che è anche il mantra ricorrente negli abominevoli talk show italiani, molto infervorati, in questi tempi di agguati terroristi, a far passare l’idea che sì, in fondo, la sicurezza val bene qualche limitazione delle nostre libertà e dei nostri diritti.
Non c’è invece scambio possibile tra la libertà e la cosiddetta sicurezza, quella che il potere è pronto a elargire in chiave di militarizzazione dei territori, delle menti, dei cuori, nonché, ovviamente, tutta nelle mani degli apparati dello Stato. In Francia, all’indomani del presidenziale proclama di guerra (contro lo Stato islamico) e dopo l’appello alla salvezza nazionale tramite le modifiche costituzionali, il primo ministro Emanuel Valls aveva dichiarato che lo stato d’emergenza avrebbe avuto soltanto un valore simbolico. Forse il primo ministro voleva fare il furbo o forse fingeva di non sapere il carattere invasivo e performativo di certi messaggi e la forza di adattività che essi producono nell’opinione pubblica, soprattutto quando sia soggiogata da emergenze inaspettate e fuori misura o che tali appaiono agli occhi di cittadini e cittadine terrorizzati e sotto shock, che rischiano per questo di perdere il senso di quello che ancora sono nei confronti dello Stato.
Cittadini, appunto, e non sudditi fidelizzati dalla riconoscenza per essere protetti. Come può accadere sempre più spesso e sempre più insidiosamente accade di fronte a fatti di terrorismo che toccano da vicino i Paesi europei. Come sottolinea Giorgio Agamben, è bene ricordare che lo stato di emergenza è il dispositivo attraverso il quale i regimi totalitari si sono insediati in Europa e, come ci insegna la storia, questo non avvenne all’improvviso ma passo dopo passo, soprattutto in base all’interpretazione che il potere dava delle emergenze di quegli anni tragici, senza che parlamenti e opinione pubblica trovassero la forza di opporsi.
Il riferimento può apparire estremo ma è tale solo fino a un certo punto. Tutto all’improvviso può cambiare. Già sta cambiando, d’altra parte. La latenza dello stato di emergenza – è la storia, quella italiana in modo particolare, a dircelo – è insita negli stessi regimi democratici. Oggi più che mai la sapienza del presente e del futuro ha le sue radici nella conoscenza del passato. La deriva verso la creazione di una relazione sistemica tra terrorismo e Stato di sicurezza è oggi un rischi concreto. Paura e terrore che si alimentano a vicenda possono diventare la base di legittimazione della nuovaperformance del potere statale. Di questo ci parla anche una politica estera imperniata su mosse belliche degli Stati che alimentano quello stesso terrorismo che all’interno di ogni Paese devono poi contrastare. Per non parlare di altro, come la vendita delle armi.
Ma oggi dobbiamo almeno dire viva la Francia. Dopo quattro mesi di discussione e 63 ore di dibattito parlamentare, Hollande ha dovuto ritirare la sua proposta. Neanche la destra ha votato la sua richiesta: non certo per spirito democratico, visto che si trattava di misure conformi a quelle che la stessa destra ha più volte avanzato nel dibattito pubblico e in sede parlamentare, ma perché non ha voluto offrire il salvagente di un rilancio a un presidente di nuovo in caduta libera nei sondaggi e che, nei proclami muscolari del dopo il 13 novembre, si era giocato anche la possibilità di un futuro nuovo mandato presidenziale.
Il dibattito in Francia è stato costellato, nei mesi scorsi, anche da vari interventi di esponenti del mondo politico istituzionale contrari alla linea di condotta di Hollande. L‘atto politicamente e simbolicamente più dirompente erano state le dimissioni senza possibilità di ripensamenti della ministra della Giustizia Christiane Toubira, all’indomai della decisione del governo di revocare la cittadinanza a un cittadino franco-alegerino giudicato colpevole di terrorismo. Christiane Toubira fa parte dell’ala sinistra del partito socialista francese e ha avuto parole molto nette di critica alla proposta del governo. Anche la sindaca socialista di Parigi Anne Hidalgo ha parlato contro e ugualmente hanno fatto il ministro dell’economica Emmanuel Mocron e l’ex premier Jean Marc Arault, attualmente ministro degli Esteri.
Il Parlamento – Assemblea nazionale e Senato – hanno alla fine fatto la loro parte, dimostrando che certi luoghi della rappresentanza democratica possono ancora esercitare la funzione di controllo e decisione democratica loro assegnata. E’ particolarmente importante oggi sottolineare questo aspetto proprio perché evidente quanto gli istituti della rappresentanza democratica siano sempre più messi sotto scacco dal combinato disposto della ratio neo-liberale, che della democrazia non se ne fa proprio niente e la riduce a banalità residuale, e della caduta nel vuoto pneumatico di gran parte delle classi dirigenti europee.
Potrebbe fare oggi una mossa coraggiosa anche il Parlamento italiano. Non sarebbe male. Per esempio pretendendo che in sede parlamentare fosse chiamato il governo per un dibattito di quelli seri, senza scappatoie per nessuno – e conseguenti decisioni – all’altezza della complessa problematica che il caso Regeni solleva. Problematica che nasce dalla stridente combinazione tra, da una parte, politica estera, alleanze e business in altri Paesi dell’Italia, sempre più nelle mani dell’esecutivo, e, dall’altra, difesa dei principi ispiratori dello Stato che la Costituzione stabilisce e diritti alla tutela dei cittadini e al rendere loro giustizia, che la Repubblica garantisce. Questo soprattutto dopo l’illuminante discorso che la madre di Giulio Regeni ha fatto sull’obbligo che il lutto privato per vicende come quelle che hanno ucciso suo figlio diventi misura della cosa pubblica e delll’obbligo dello Stato di rendere giustizia a un suo cittadino.
Fonte: Sinistra Ecologia Libertà
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