di Francesco Ventura
Tra la metà dell'Ottocento e quella del Novecento vanno incrementandosi trasformazioni e ampliamenti sempre più radicali delle città. Concepire la configurazione materiale dello spazio abitato si voleva fosse, per lunga tradizione, compito dell'arte di edificare. Più propriamente competenza di un sapere tecnico che andava già articolandosi tra ciò che si usa chiamare "architettura" e le nascenti ingegnerie. È una fase questa molto avanzata, ma ancora incompiuta, di un lungo processo di coerentizzazione del pensiero greco, ossia della razionalità filosofica. L'originario nucleo dominante, chiamato "metafisica", integratosi in due millenni alla teologia delle grandi religioni monoteiste, e così diffusosi a livello di massa, va sgretolandosi. Ciò apre uno spazio sconfinato alla razionalità scientifica. Al potere teologico va sostituendosi la potenza tecnologica. La molteplicità dei saperi tecnici va liberandosi dalla tradizionale sovranità.
I fini pratici delle varie tecniche vanno sottraendosi ai limiti che quel dominio ha per secoli loro imposto in funzione dei propri scopi e principi etici. Il senso che la parola "libertà" e i suoi derivati hanno assunto nel nostro tempo è relativo al movimento liberatorio da quel dominio.
I fini pratici delle varie tecniche vanno sottraendosi ai limiti che quel dominio ha per secoli loro imposto in funzione dei propri scopi e principi etici. Il senso che la parola "libertà" e i suoi derivati hanno assunto nel nostro tempo è relativo al movimento liberatorio da quel dominio.
Più in generale, la liberazione è da ogni forma di immutabile postulato dal pensiero tradizionale. Perché la sua essenziale incoerenza sta proprio in questo: riconoscere come evidente, secondo ragione ed esperienza, l'assoluta mutevolezza del mondo sensibile, e insieme porre, in forza della sola astratta deduzione logica, una dimensione immutabile al di là del mondo e a suo dominio. Il che finisce per risolversi nella negazione di ciò che il medesimo pensiero considera evidente e perciò stesso incontrovertibile. Se in sé e per sé il mondo è mutevole, non può esservi alcun suo dominio immutabile. Ciò non implica il tramonto della volontà di dominio, ne è, anzi, la sua liberazione. La volontà di dominio è ora illimitata, ma, insieme, la sua possibilità concreta si dà solo: isolando una parte dal tutto, secondo gli specialismi delle scienze e delle tecniche; concependo piani di azioni e opere ipotetici, perciò revisionabili in relazione sia ai mezzi sia allo scopo; e perseguendo solo fini specifici la cui realizzazione non può che essere contingente, mai definitiva.
Le conseguenze sono rilevanti, tuttora in atto e non del tutto compiute, perché ne va del senso del mondo: muta ciò che orienta l'esistenza individuale e sociale. Cambia il senso del sapere e della produzione tecnica e artistica, così come ruolo e struttura delle istituzioni politiche, dell'ordine giuridico e del diritto. Qui importa rilevare, innanzitutto, chela città, sia nella sua configurazione spaziale sia nel suo ordine comunitario, non è più concepibile come opera compiuta, relativamente chiusa e stabile. La forma perde la rilevanza estetica, che la voleva figura finita simboleggiante la dimensione infinita in cui l'eterno consiste, facendo decadere l'originaria valenza artistica del suo concepimento. S'indebolisce l'unità dello scopo primario, comune e stabile in funzione del quale la città veniva costruita e abitata e al quale ogni singolo fine d'uso dei suoi diversi spazi e servizi era subordinato.
Si comprende allora come, a fronte di pratiche di trasformazione delle vecchie città già da tempo in atto, sorgano nella seconda metà dell'Ottocento i primi tentativi di fondare uno specifico sapere tecnico, ramificazione insieme delle ingegnerie e dell'architettura, che si vorrebbe in grado di guidare con razionalità scientifica la pianificazione e costruzione di città adeguate al nostro tempo. Per lo più vengono elaborati manuali pratici, ma anche, come nel caso anticipatore dello spagnolo Ildefonso Cerdá, proposte teorie generali, sempre comunque in stretta relazione a esperienze concrete di pianificazione. Entra progressivamente nell'uso il nome della nascente disciplina, il neologismo che in italiano suona "urbanistica", ricavato dall'antico latino urbs, ossia l'aratro o manico dell'aratro col quale si tracciava il solco di fondazione delle città etrusco romane. Segno, questo, della volontà di rifondare ab origine la città. Trascorre circa un secolo e poi cessa la manualistica, mentre alcuno dei tentativi di teorizzare la nuova scienza avrà sviluppo, sarà discusso, lascerà traccia significativa nel sapere, se non come documento storico. Cionondimeno, la pratica della pianificazione operata dalle amministrazioni locali in forza di legge, che oggi si usa chiamare "governo del territorio", è andata ampliando i suoi fini e incrementando il suo spazio di competenza a più livelli amministrativi. Un mutamento consistente, al punto che il neologismo col quale si era voluto nominare il nascente sapere non appare più idoneo a comprendere il senso della pratica attuale. Cos'è oggi dunque l'urbanistica? Si è evoluta o involuta?
A uno sguardo immediato balza in primo piano una continuità e, insieme, una discontinuità con le origini. Vi è continuità nella sempre più completa identificazione dell'urbanistica con la pianificazione normativa operata dalle amministrazioni locali in forza di legge, i cui contenuti e fini sono decisi in ultimo dalla politica. Un'identificazione pressoché indiscussa, anzi, rafforzata da tutte le riflessioni basate su interpretazioni della storia. Per quanto, infatti, si risalga nel tempo, è sempre possibile imbattersi, in senso generico, in uno stretto rapporto di dipendenza del tracciato della città e del territorio agricolo dalla decisione della sovranità politica, qualsiasi ne sia il fondamento. Vi è invece discontinuità nella capacità, che sembrava alla nascente urbanistica indiscutibile, di predeterminare una forma più o meno compiuta della città, ossia di dominarne almeno il disegno dell'impianto urbano. È sufficiente osservare la pianta di una città di lunga formazione per notare tre diverse parti: il suo nucleo più antico, quando ne è rimasta traccia, il tracciato otto-novecentesco ben distinguibile e perfettamente disegnato dalla prima pianificazione urbanistica moderna e il dilagare in un coacervo di forme varie dell'urbanizzazione successiva e in specie recente.
Il suo senso originario
Cosa ha permesso alla prima pianificazione urbanistica di operare con relativa efficacia, lasciando un segno netto nell'impianto urbano e per lo più rispondente al disegno originariamente deliberato da ogni specifico piano? E perché questa efficacia e l'originaria funzione dei piani normativi erano destinate a tramontare nella fase successiva dell'urbanizzazione? Quale funzione si vuole che svolga e quale effettivamente svolge l'attuale pratica normativa che si continua a chiamare "pianificazione"?
Per rispondere alla prima domanda, che è la chiave con la quale si può indicare la direzione delle altre, vanno tenute presenti almeno due condizioni principali, entrambe determinate da quella fase ancora incompiuta di coerentizzazione del pensiero greco. Una riguarda il diritto e l'altra l'economia. L'assolutismo del sovrano, che in ultimo si voleva fondato sul diritto divino o naturale, quindi il senso semplice e astratto del centro di potere politico, viene abbattuto ma non annientato. Il sovrano è detronizzato e laicizzato, trasferendo la semplicità e astrazione del potere sulle cose al singolo individuo. Il diritto di proprietà moderno, qualificato appunto "privato", è semplice e astratto, là dove quello medievale era stato complesso e concreto. Prima delle idee illuministiche e della rivoluzione francese, su ogni porzione di suolo, ciascuna intesa nella sua specifica natura, gravavano un complesso di diritti reali che ponevano i vari soggetti in rapporto alle differenti e concrete qualità delle cose. Diritti questi sempre e comunque subordinati alla sovranità del potere centrale che li concedeva, regolava, revocava in forza del diritto cosiddetto naturale. Strettamente connesso all'istituzione del diritto di proprietà nella sua forma moderna e di pari importanza è la liberalizzazione del commercio. Un mercato delle cose che non è più limitato dal potere assoluto del sovrano, ma, in linea di principio, è un'attività liberamente esercitata dai singoli cittadini. Ed è proprio attraverso il libero mercato che ogni cittadino ha la possibilità di accedere alla proprietà delle cose. Anche l'uso delle cose da parte dello Stato richiede che questi ne abbia titolo attraverso l'acquisizione del diritto di proprietà. Perciò fondamentale è l'istituto dell'esproprio per pubblica utilità.
Solo chi è proprietario, sia esso persona, società privata o ente pubblico, ha infatti "il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo" (art. 832 C.C.), nel senso che non sono ammesse interferenze di altri soggetti nel rapporto col bene. In questa sua illimitatezza sta il carattere astratto di tale diritto: astratto, ossia separato dal limite in cui consiste la relazione con altro da sé. La sua semplicità sta nel fatto che, a differenza di qualsiasi altro diritto reale, può esistere da solo, senza dipendere da altri diritti di maggiore ampiezza, né dalla specifica natura delle cose. Semplicità e astrattezza sono caratteri correlati, s'implicano a vicenda. Perciò non ha neanche limiti temporali e, salvo particolari eccezioni, non è ammesso imporli. Non solo, altra conseguenza è che, in linea di principio, il non uso del bene non fa decadere il diritto. Un limite sta nell'usucapione, dove il diritto in quanto tale non vien meno, ma è trasferito ad altri che, invece, fanno uso concreto del bene.
Va tenuto ben presente il senso profondo della espropriazione per pubblica utilità, anch'essa nella forma moderna. Non solo l'espropriazione non nega il diritto, ma ne è la più robusta conferma. Se la pubblica utilità richiede l'uso di un determinato bene per fini appunto pubblici, riconosciuti nei modi stabiliti dalla legge, allora l'amministrazione pubblica deve subentrare nel diritto per avere lei il potere escludente di godimento e disponibilità che dal diritto deriva e senza il quale qualsiasi uso del bene è impedito.Sicché vi è una specifica e circostanziata limitazione alla disponibilità del bene che incide sul privato titolare del diritto: quella che gli impedisce di rifiutare la vendita di fronte a uno scopo di interesse pubblico. L'esproprio è dunque una vendita forzata che implica che al proprietario sia dato in cambio il valore venale del bene. Ciò è perfettamente coerente col diritto di proprietà e armonico con il dominio capitalistico del mercato, dove tendenzialmente il valore ultimo e fondante di ogni cosa è quello venale. La semplicità e astrattezza del diritto di proprietà è la medesima semplicità e astrattezza del denaro, che l'agire capitalistico da mezzo di scambio delle merci rovescia in scopo. Il diritto di proprietà, nel nostro tempo, lo si vuole dunque liquidabile, mobile, anche e soprattutto per i beni immobili, quanto più possibile circolante nel mercato, perché è il suo valore venale che tende a dominare su ogni altro.
Alla luce della struttura semantica del diritto di proprietà, occorre chiarire quale sia la relazione tra la dimensione del "semplice e astratto" e la dimensione del "complesso e concreto" in cui consiste la molteplicità dei godimenti e delle disposizioni del bene che il detentore del diritto - e solo lui - ha il potere di porre concretamente in essere. Il secondo comma dell'art. 42 della Costituzione italiana recita: "La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti". Da un lato il diritto, nella sua semplicità e astrattezza cosi come definito dal Codice Civile, è confermato e perciò deve essere dalla legge garantito. Dall'altro è esplicitata la "funzione sociale" della proprietà. Il che non aggiunge nulla a ciò che è sempre stato implicito. Ma in questo modo la Carta Costituzionale intende dare la massima rilevanza alla dimensione del concreto, ossia la centralità della funzione produttiva di cui il diritto di proprietà è principio. In quanto diritto semplice e astratto è absoluto, ossia sciolto da qualsiasi relazione condizionante e dunque in sé e per sé separato dal relazionarsi in cui ogni società consiste. In altri termini, è a-sociale e perciò stesso improduttivo. E tuttavia è pensato - e il testo costituzionale lo esplicita - come ciò che si traduce - si deve tradurre, sembra volere dire la Costituzione, non può non tradursi - nella molteplicità dei godimenti e delle disposizioni proprie del relazionarsi sociale. È separato da ogni relazione, che in quanto tale costituisce limite, e insieme deve relazionarsi. L'illimitato deve darsi nel limitato. Stante questa logica, è evidente che, come appunto dice la Costituzione, godimenti e disposizioni, ossia azioni e opere che il proprietario - e solo lui - ha il diritto di decidere e di compiere usando come mezzo il bene, perché abbiano funzione sociale devono essere regolamentati e limitati dalla legge. Il dettato costituzionale non fa altro che ribadire ciò che è implicato fin dall'istituzione del diritto di proprietà: godimenti e disposizioni del bene non possono essere illegittimi. Il diritto di proprietà non è diritto di violare le norme di legge con le quali si regolano le relazioni tra individui e tra questi e lo Stato e senza le quali non può esserci società.
Le norme di legge sono eminentemente relazionali e negative, in quanto limitano le azioni e le opere dei singoli per tenerli uniti, permettendone la convivenza. Le norme, in linea di principio, sono erga omnes, non si applicano solo alla categoria dei proprietari in quanto proprietari, ma in quanto cittadini, sono anzi - si può dire - indipendenti dall'esistenza del diritto di proprietà privato e, in relazione al tema specifico, anche indipendenti dalla pratica pubblica della pianificazione spaziale. Facciamo un esempio in forma semplice e schematica. Poniamo che studi delle varie branche delle scienze della terra ed esperienze sul campo, rilevino che la pericolosità, poniamo idrogeologica, di un certo luogo sia tale da ipotizzare probabili eventi più o meno catastrofici, sebbene in un tempo avvenire non determinabile. Poniamo che allo stato dell'arte delle ingegnerie e delle disponibilità finanziarie pubbliche non sia possibile con opportune tecniche e opere mettere in sicurezza i suoli. Poniamo che evitare l'edificazione sia valutata una buona prevenzione prudenziale per ridurre i rischi. E poniamo, infine, che l'indirizzo etico-politico prevalente abbia tra i suoi scopi primari la sicurezza degli abitanti. Allora si hanno le condizioni per emanare una norma di legge che vieti di edificare su quei suoli. Con questo atto non c'è alcuna conformazione del diritto di proprietà, non si pretende di prescrivere al proprietario un determinato uso di quei suoli, né di realizzarvi in avvenire determinate azioni e opere. Decisioni, queste, che spettano solo a chi ne detiene la proprietà. La norma vieta una determinata attività in quel luogo a chiunque, qualsiasi diritto esso detenga, incluso quello di proprietà, e avrà vigore fintanto che qualcuna delle condizioni sopra elencate non venga meno inducendo il potere politico a variarla. La sua emanazione non necessita di alcuna pianificazione spaziale. Anzi. Qualsiasi atto di piano, pubblico o privato, normativo o meno sarà subordinato a tale divieto.
Non è dunque la redazione di un qualsiasi piano spaziale il luogo principe dove assumere analoghe deliberazioni anche per fini diversi da questo, quali sono a esempio quelli di tutela normativa del Patrimonio (monumenti, centri storici, paesaggio), che richiedono innanzitutto, ma non solo, il contributo dei vari specialismi delle scienze storiche e archeologiche. Lo scopo della norma - in questo esempio, e molti altri se ne potrebbero fare - è tra quelli che riguardano la mitigazione delle varie forme di rischi ambientali e tecnologici. Fini che richiedono conoscenze specialistiche delle varie scienze della terra, delle scienze biologiche ed ecologiche, delle ingegnerie, e così via. Mentre non c'è alcuna necessità di ricorrere all'urbanistica, né alla pianificazione, il cui scopo è la volontà di concepire e realizzare in avvenire una determinata configurazione dello spazio. A meno di non pensare che sia possibile concepire una configurazione dello spazio, un ordine del territorio avvenire e modi di usare il suolo per perseguirlo e mantenerlo così virtuosi da costituire la miglior risposta globale, sicura e valida a tempo indeterminato, al problema della salvezza della Terra e del Patrimonio dell'umanità, tale cioè da superare gli specialismi tecnico-scientifici, unificandoli magicamente nel supposto sapere urbanistico o "territorialista".
La dimensione complessa e concreta del diritto di proprietà, alla quale il dettato costituzionale dà centralità, oltre che il godimento del bene, riguarda il potere dispositivo, che ovviamente deve essere, come per il primo, concretamente esercitato anch'esso nei limiti e nei modi della legge. Ma di particolare rilievo è che, a completamento della funzione sociale della proprietà, la Costituzione stabilisce che la legge ha il compito di "renderla accessibile a tutti". Il principale atto dispositivo è l'alienazione del bene. È dunque la compravendita del diritto la via di accesso alla proprietà. Per cui garantire a tutti l'accesso alla proprietà significa garantirne la libertà di mercato. Il che si lega alla funzione produttiva attinente al godimento. Occorre favorire le condizioni di legge perché, ove occorra, una proprietà socialmente improduttiva sia sostituita da una produttiva. Dove viene in luce anche il ruolo specifico della espropriazione per pubblica utilità, con la quale, quando la libertà di mercato si riveli nella contingenza insufficiente, si può obbligare il proprietario a vendere, per il tramite della pubblica amministrazione, anche a terzi che si impegnino a realizzare con quel bene azioni e opere dichiarate utili nelle forme di legge agli interessi pubblici.
Dall'efficacia del piano alla sua impotenza
Non a caso in Italia, la prima legge generale dello Stato unitario che ha istituito un atto normativo chiamato "piano regolatore" e, a seconda della parte di territorio comunale interessata, "piano di ampliamento", è stata quella sulla espropriazione. Due sono i fini di interesse pubblico concomitanti. L'ammodernamento e l'ampliamento delle città e, per perseguirli, l'accesso alla proprietà dei beni immobili necessari a realizzare le opere pubbliche e private da parte, rispettivamente, della pubblica amministrazione e della nascente imprenditoria capitalistica. L'istituzione del diritto di proprietà e la liberalizzazione del mercato non producono in sé e per sé cambiamenti concreti se non seguiti da interventi concreti. Senza un massiccio, sistematico e pianificato ricorso all'esproprio, soprattutto per quanto riguarda l'uso del suolo e di tutto ciò che vi sta su, non si sarebbero prodotte in tempi e modi opportuni le grandi trasformazioni di città e territori. Si trattava di favorire la sostituzione della vecchia proprietà, legata all'uso tradizionale del bene, con la nuova, imprenditoriale e produttiva, il cui agire è finalizzato al profitto. È questa la condizione specifica che ha permesso lo sviluppo della pratica dei piani normativi, dando spazio al sorgere di un sapere capace di guidarne il contenuto tecnico e che sarà chiamata "urbanistica". Si espropriavano i suoli, liquidando ai vecchi proprietari il valore venale del bene. Si redigeva il piano di opere pubbliche e private. Si riassegnavano i lotti edificabili con varie forme di asta, tali cioè da riprodurre situazioni simili alla logica del libero mercato. Si gravavano gli acquirenti di tutti gli oneri finanziari e tecnici, perché le opere fossero realizzate secondo la volontà e nei tempi deliberati dall'amministrazione comunale con l'atto di piano.
Il punto fondamentale è questo: l'amministrazione pubblica decide col piano gli usi del suolo lotto per lotto e insieme ha il potere di realizzarli o di farli realizzare ai privati, perché detiene il diritto di proprietà di quei medesi suoli. La concretezza della pianificazione urbanistica degli esordi sta nel ricorso sistematico all'esproprio, che permette di perseguire un alto grado coerenza tra il disegno del piano e la sua realizzazione. Una volta provocata in concreto la liberalizzazione del mercato immobiliare finalizzato al profitto e innescata la crescita dell'urbanizzazione, l'uso dell'esproprio sarà di fatto limitato alle necessità di realizzazione di opere pubbliche. Mentre gli usi del suolo dipenderanno dalle dinamiche di mercato del diritto di proprietà dei beni immobili, ormai concretamente liberato dai vecchi vincoli che ne limitavano la circolazione. Accade allora quanto segue. Da un lato l'istituzione del piano normativo va consolidandosi fino all'emanazione, in Italia, di una legge nazionale urbanistica (n. 1150 del 1942) che resta tuttora fondamento del diritto urbanistico. Quell'atto normativo che a lungo è stato chiamato "piano regolatore" si estende all'intero territorio comunale e progressivamente la sua adozione e la pratica dei suoi aggiornamenti divengono obbligatori per tutti i comuni. Dall'istituzione delle Regioni si svilupperanno in seguito a dismisura leggi e atti di piano a varie scale territoriali di ciò che si usa chiamare "governo del territorio", ma che lasceranno intatta l'essenza del diritto urbanistico e del piano regolatore comunale, sebbene ogni legge regionale sostituirà quel nome con uno di propria preferenza. Dall'altro lato non si ricorrerà più all'esproprio dei suoli per l'attuazione del piano per ovvi motivi. L'estensione del piano all'intero territorio comunale comporterebbe l'esproprio generalizzato dei suoli. Ogni tentativo di promuovere una riforma del diritto urbanistico tale da escludere l'edificazione dal diritto di proprietà riducendola a una concessione della pubblica amministrazione è fallita. E non poteva non fallire in quanto snaturante la semplicità e l'astrattezza del diritto tale da richiedere una riforma dei principi fondamentali della Costituzione.
L'atto normativo detto piano, si distingue da qualsiasi altro atto normativo, da qualsiasi altra regolamentazione, proprio perché, quando è piano operativo, senza il quale ogni altro livello di piano resta una mera indicazione, predetermina le "destinazioni d'uso" (così si usa chiamarle) di ciascuna porzione di suolo soggetta al diritto di proprietà. Il piano, cioè, ha il potere di "conformare" - come si usa dire - il diritto di proprietà, ossia di specificarne il contenuto, con la velleitaria volontà che il proprietario lo ponga in essere nel tempo avvenire, laddove di principio il diritto di proprietà è invece astratto da qualsiasi uso concreto, che non sia nella volontà del titolare del diritto. La potenza apparente del piano sta in questo supposto potere di conformazione: volendo ottenere una determinata configurazione dello spazio in un determinato territorio, incorpora tale disegno di interesse pubblico nell'ordinamento dei suoli determinato dalla distribuzione del diritto di proprietà così come mappata a fini fiscali dal Catasto.
A testimoniare la rilevanza economica della destinazione urbanistica sta il fatto che questa è calcolata a fini fiscali come ogni altro uso, pur essendo una semplice previsione e non concreto uso produttivo in atto. È chiaro dunque, che la previsione non è una mera ipotesi; conformando il diritto di proprietà determina un valore di mercato finanziariamente concreto e certo, legalmente garantito, indipendentemente dal concretarsi o meno dell'uso previsto. Per far profitto è sufficiente concretarne la vendita sul libero mercato, che è vendita del diritto di proprietà con incorporata la destinazione urbanistica. Non viene venduto alcun prodotto frutto di investimento privato, si ha solo mercimonio privato della destinazione urbanistica prodotta dal piano e deliberata di interesse pubblico. Ciò fa del piano un potente ed efficace strumento di specifica attività speculativa a bassissimo rischio, altissimo rendimento e senza dover ricorrere ad alcuna mediazione produttiva, ma solo a quella politica che ha il potere di deliberare l'atto di piano. Una mediazione, questa, che con notevole frequenza ha un prezzo di scambio tra politici e affaristi, occultato dalla retorica del piano e fuori dalla legalità.
Vediamo in modo più determinato perché la supposta potenza del piano normativo è, al contrario, la sua più clamorosa impotenza, vanificante ogni scopo di interesse pubblico e dannosa al perseguimento quest'ultimo. Si può introdurre l'argomento usando in senso metaforico il detto evangelico: "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio", il cui significato implicito, sovente misconosciuto, è un comando: "non si dà a Cesare quel che è di Dio". In altri termini, è uno dei modi di affermare la suprema potenza di Dio su tutto e su tutti. Se, nella metafora proposta, il diritto di proprietà e il mercato dominato dall'agire capitalistico sono Cesare e Dio il Bene Comune, allora l'atto di piano fa esattamente l'opposto del detto evangelico, perché "dà a Cesare quel che è di Dio". Il piano, stabilito nell'interesse comune l'ordine territoriale delle destinazioni d'uso al fine di dare allo spazio la configurazione futura voluta, le consegna - di diritto - al potere che alla molteplicità varia dei privati deriva dal diritto di proprietà dei suoli e di tutto ciò che vi sta su. Si ha così una privatizzazione parcellizzata dell'interesse pubblico, che fa perdere al piano, ovvero all'attività normativa detta pianificazione, anche la sua formale unità e coerenza nello spazio e nel tempo, oltre che l'effettivo controllo pubblico sull'andamento imprevedibile degli eventi, sui mutamenti degli indirizzi etici e politici e, soprattutto, sulle dinamiche di mercato. Il piano normativo, nell'ingenua volontà di resistere all'imprevedibilità del divenire, irrigidendosi in diritti si smentisce da sé nell'atto stesso di costituirsi.
Interrogativi attuali
Allo stato dell'arte occorrerebbe porsi alcune domande, che qui enucleo offrendole, senza scioglierle, all'eventuale dibattito. Una premessa per meglio chiarirne il senso. Poiché la pianificazione spaziale è normativa e i piani sono atti deliberati sulla base di scelte politiche, è inevitabile che anche nel dibattito tra urbanisti prevalgano temi e contrasti di natura etica. L'intento di fondo delle domande è invece di concentrare l'attenzione su aspetti tecnico scientifici: lo stato dell'arte da un lato e i limiti, o meno, dell'attuale configurazione giuridica del piano. Qualsiasi siano gli specifici fini etici che s'intendono perseguire, si ricorre al piano quando si ritiene che per soddisfarli sia necessario concepire la configurazione dello spazio abitato più idonea e che la tecnica per realizzarla sia quella di stabilire un congruente ordine territoriale degli usi del suolo. Qualsiasi atto di piano, in specie nel nostro tempo, contiene norme di due tipi: quelle che limitano e quelle che prescrivono determinati usi dei suoli. La differenza è per più aspetti rilevante.
Le norme limitative non hanno quale fonte solo i piani, né il piano è la fonte principale. Solo per fare alcuni tra molti esempi possibili, vi sono le leggi volte alla mitigazione dei rischi ambientali e tecnologici e quelle volte alla tutela dei beni culturali. Così pure tra gli atti normativi comunali vi sono i regolamenti edilizi, anch'essi emanati come i piani in forza di legge. Tali tipi di norme sono tra quelle che, in coerenza al dettato costituzionale, limitano l'esercizio concreto del diritto di proprietà, ossia realizzano il loro fine nel momento in cui il proprietario, avvalendosi del potere che il diritto conferisce a lui e solo a lui, decide in piena autonomia di porre in essere un determinato uso, allora lo dovrà fare nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge. In sé e per sé, le norme limitative non hanno quale scopo primario il perseguimento di una determinata configurazione dello spazio.
Primo gruppo di domande. Quale specifica funzione, diversa da quella in altri atti normativi, hanno tali tipi di norme nell'atto di piano? Perché per perseguire la molteplicità di fini propri di tali tipi di norme non sarebbero sufficienti gli atti normativi diversi dai piani? L'efficienza e l'efficacia di tali norme sono maggiori o minori quando inserite nei piani rispetto ad altri atti? Rispetto alla molteplicità delle competenze specialistiche che contribuiscono a dare fondamento tecnico scientifico a tali norme qual è lo specifico apporto dell'urbanista nell'inserirle nell'atto di piano?
Le norme prescrittive distinguono nettamente l'atto chiamato piano da qualsiasi altro atto normativo e ne giustificano il nome. Un atto normativo che non contenga norme prescrittive, ossia le cosiddette "destinazioni urbanistiche" di ciascuna particella catastale, non è un piano. La sovrapposizione tra le destinazioni urbanistiche del piano e la mappa catastale, determina lo stato di diritto urbanistico del suolo per chiunque ne sia il titolare: persona fisica, società privata o ente pubblico. La particolarità della norma prescrittiva, rispetto a quella limitativa, è che non può obbligare il proprietario a porre in essere l'uso al quale il piano vuole che il bene sia destinato. Perciò, quanto al godimento, il proprietario può ripetere a tempo indeterminato l'uso del bene che era già in atto al momento dell'approvazione del piano, a meno che non lo si espropri. Non può invece sostituire l'uso in atto con un uso che contrasti con la destinazione del piano. Sicché la norma formalmente prescrittiva si risolve in una particolare norma limitativa. Ma al proprietario resta intatto il potere dispositivo sul bene e dunque il diritto di alienazione, così come regolato dalla legge. Come è noto dall'esperienza, ma deducibile anche a fil di logica, le differenti destinazioni urbanistiche incidono sui valori di mercato dei diversi suoli. Quando vi è aumento di valore del bene rispetto al valore di mercato precedente l'approvazione del piano il proprietario beneficiato è incentivato a venderlo, oltre che libero di attendere per qualsiasi altro fine suo proprio. Questo è l'affetto concreto e immediato del piano. Un effetto che non realizza il piano, né garantisce che sia premessa alla sua realizzazione. Perché nessun privato investe nella produzione di beni e servizi, a meno che non siano per uso personale, se non dopo aver ipoteticamente calcolato le condizioni di mercato idonee a venderli. Mentre l'attività di compravendita di beni temporaneamente valorizzati dal piano può essere in quel momento più profittevole di qualsiasi investimento produttivo, in attesa che l'uso stabilito dal piano incontri la domanda o il piano venga variato attraverso la mediazione politica.
Secondo gruppo di domande. Costituisce o meno un problema grave, tale da depotenziarne quasi completamente l'efficacia, l'impossibilità, se non tramite esproprio, di obbligare il proprietario a porre in essere, e nel tempo debito, l'uso del suolo deliberato dal piano? Oltre all'eventuale pianificazione di opere pubbliche - cosa che accade di rado in questi tempi -, opere che si realizzano tramite espropriazione, cosa fa o può fare, e come, il piano di diverso da ciò che il mercato e lo scopo di profitto impongono? Posto che, nonostante tali limiti, si ritenga in qualche modo possibile interagire nell'interesse pubblico con le dinamiche di mercato, quali competenze ha l'urbanista, in quanto urbanista, nell'analisi del mercato per poter formulare previsioni ipotetiche sui mutamenti che tali dinamiche inducono nella configurazione dello spazio avvenire?
Fonte: casadellacultura.it
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