Intervista a Khaled Khalifa di Guido Caldiron
Il supplemento letterario del quotidiano libanese L’Orient/Le Jour ha paragonato l’ultimo romanzo di Khaled Khalifa, La morte è un lavoro duro, pubblicato lo scorso anno a Beirut e ancora inedito in Europa, a Mentre morivodi William Faulkner. Come lo scrittore del Mississippi, raccontava la discesa agli inferi di una famiglia di miserabili contadini che deve attraversare una regione del sud degli Stati Uniti battuta da piogge torrenziali per seppellire le spoglie della madre, i personaggi dell’autore siriano, i tre figli di un insegnante coinvolto nella rivolta contro Assad, viaggiano da Damasco ad Aleppo per trasportare i resti del padre.
Si narra che Faulkner scrisse il suo romanzo di notte, nelle ore lasciate libere dal lavoro come fuochista che svolgeva nella centrale elettrica di un’università.
Lo scenario in cui lavora Khalifa è invece quello della guerra civile siriana: le peripezie dei suoi personaggi si svolgono lungo una strada dove bombardamenti ed esplosioni hanno scavato crateri e tra i checkpoint delle milizie lealiste e dello Stato islamico. In entrambi i casi, il lungo viaggio in compagnia della morte serve ai vivi per riflettere sulla loro condizione e sulla possibilità o meno di immaginare un futuro.
Lo scenario in cui lavora Khalifa è invece quello della guerra civile siriana: le peripezie dei suoi personaggi si svolgono lungo una strada dove bombardamenti ed esplosioni hanno scavato crateri e tra i checkpoint delle milizie lealiste e dello Stato islamico. In entrambi i casi, il lungo viaggio in compagnia della morte serve ai vivi per riflettere sulla loro condizione e sulla possibilità o meno di immaginare un futuro.
In Italia su invito del festival veneziano Incroci di civiltà, giunto alla sua nona edizione e che si conclude stasera (per chi legge), Khaled Khalifa è considerato uno dei più autorevoli e significativi autori della narrativa siriana contemporanea, nonché una figura di primo piano dell’opposizione progressista al regime di Damasco. Nato nei pressi di Aleppo nel 1964, dopo gli studi in Legge ha fondato la rivista letteraria Aleph, rapidamente messa al bando dalla censura. Trasferitosi nella capitale siriana, ha iniziato a scrivere per il cinema e la televisione. Fino ad oggi ha pubblicato 6 romanzi, che hanno ricevuto importanti riconoscimenti internazionali. Nel nostro paese è uscito nel 2011 per Bompiani Elogio dell’odio (pp. 523, euro 21,90) che lo scrittore presenterà la prossima settimana a Napoli, Roma, Firenze e Milano.
Il suo ultimo romanzo descrive una sorta di pellegrinaggio attraverso la guerra civile per seppellire un morto: una metafora della condizione del suo paese?
"Direi piuttosto una fotografia di cosa significhi vivere da oltre quattro anni immersi in una guerra senza quartiere. Non è un paradosso, ma oggi in Siria anche seppellire un proprio caro è un’impresa pressoché impossibile. Però, certo, l’idea di fondo è raccontare cosa la guerra abbia fatto del mio paese, come lo abbia trasformato. I protagonisti viaggiano in una piccola macchina, insieme al morto, attraversando posti di blocco e sbarramenti eretti da tutte le forze in campo, gli integralisti piuttosto che il regime che non mostrano alcun interesse per la vita dei comuni cittadini. Lungo il viaggio però i protagonisti finiscono in qualche modo per ritrovarsi. Quel lutto e la distruzione che vedono intorno a loro non li spingono a perdere la speranza. Al contrario iniziano ad immaginare che un futuro diverso li attenda. Che è poi ciò che mi auguro e per cui mi batto."
«Elogio dell’odio», la sua opera più nota a livello internazionale, racconta la feroce repressione scatenata da Hafez al Assad, il padre dell’attuale uomo forte di Damasco, nel 1980 contro una rivolta capeggiata dai Fratelli musulmani. Quasi un’anticipazione della realtà odierna, con la popolazione schiacchiata tra la violenza di Stato e quella fondamentalista?
"Quando ho scritto quel libro, non pensavo che potesse riguardare anche il futuro del mio paese. Volevo riflettere sul fatto che all’epoca il regime, con la scusa di colpire i fondamentalisti islamici che si erano allontanati dalla maggioranza della popolazione in ragione del loro settarismo religioso, visto che in Siria hanno invece sempre convissuto pacificamente fedi e culture diverse, e del ricorso a pratiche terroristiche, aveva in realtà cercato di annientare tutte le forze dell’opposizione, anche quelle di natura laica e progressista, e ogni voce dissonante emersa nella società civile. Si arriverà così al massacro di Hama dove nel 1982 furono uccise oltre 30 mila persone.
A distanza di qualche anno dalla pubblicazione del libro, che in lingua araba è uscito una decina di anni fa, mi sono però reso conto che in realtà anche Bashar al Assad stava utilizzando gli stessi metodi del padre. Quando nel 2011 a Damasco, all’inizio della primavera siriana, ci furono le prime manifestazioni di protesta organizzate dagli studenti, il regime le bollò come atti contro la patria, sobillati da qualche potenza straniera, e parlò di terroristi che minacciavano l’unità del paese. Era solo l’inizio di quella repressione selvaggia che avrebbe portato alla guerra e che, schiacciando le forze democratiche e della sinistra, avrebbe favorito proprio l’emergere dello Stato islamico."
Lei ha sostenuto apertamente quel movimento di protesta, sorto insieme al resto delle primavere arabe, subendo anche minacce e aggressioni da parte della polizia politica. Ritiene che oltre alla repressione anche l’isolamento internazionale ne abbia determinato la sconfitta?
"Senza alcun dubbio. A parte qualche rara eccezione i siriani sono stati lasciati praticamente da soli ad affrontare il regime. Sia chiaro, non parlo della possibilità di un intervento armato di potenze straniere che avrebbe solo peggiorato le cose, visto che nel mio paese i sentimenti di indipendenza e dignità nazionale sono molto sentiti dalla popolazione. Mi riferisco ad una vasta mobilitazione delle coscienze e dell’opinione pubblica internazionale che poteva fermare la corsa verso la guerra civile quando ancora si era in tempo, isolare gli estremisti religiosi e imporre l’uscita di scena di Assad che rappresenta ancora oggi la condizione indispensabile perché si possa pensare ad una riconciliazione tra siriani e ad una prospettiva realmente democratica per il paese. Purtroppo, invece, non c’è stato nulla di significativo da questo punto di vista."
Nonostante ciò lei continua a vivere a Damasco e a battersi con le sue opere come con il suo impegno per la libertà della Siria. Non ha perso la speranza?
"Dove altro potrei vivere mentre il mio paese attraversa le pagine più tragiche della sua storia? Il mio posto è in Siria e considero come un dovere continuare a scrivere e, per quanto possibile a far sentire la mia voce in patria e all’estero, come in questo momento. Ma c’è anche un’altra ragione che mi fa restare. Perché malgrado tutto, le centinaia di migliaia di morti, le distruzioni immense, l’orrore che si vive quotidianamente, in questi anni di guerra ho visto crescere anche una nuova generazione della rivolta. Si tratta di giovani che sanno che le cose cambieranno e che per questo obiettivo lavorano senza sosta sfidando gli «sbirri» del regime come i terroristi dell’Isis. Sono determinati, cocciuti, non perdono la speranza e mi fanno credere che la rivoluzione che è iniziata qualche anno fa in Siria si fermerà solo quando avrà vinto."
Fonte: il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.