di Riccardo Chiari
Dopo le cariche delle forze dell’ordine alle due del mattino, finale in linea con la giornata di ordinaria follia andata in scena all’Osmannoro a partire dal tardo pomeriggio di mercoledì, dovrebbe essere il momento delle riflessioni. Difficili, a giudicare da quel centinaio di immigrati cinesi riuniti ieri davanti al Palagiustizia di Novoli. In presidio di solidarietà ai due connazionali processati per direttissima, a causa dei continui tafferugli seguiti a un fisiologico controllo della Asl in uno dei mille, duemila, tremila capannoni che punteggiano la Piana fiorentina, pratese e pistoiese. Con scontri, lanci di sassi, di segnali stradali, di qualsiasi cosa i manifestanti avevano a portata di mano.
Vista con i loro occhi, la realtà del macrodistretto industriale e commerciale in cui vivono e lavorano è quella di una terra di nessuno, dove soltanto chi ha gli occhi a mandorla viene preso di mira. «Invece di arrestare chi ruba, la polizia controlla chi lavora», sintetizza ai cronisti un manifestante in un buon italiano. I suoi connazionali non hanno la stessa padronanza di linguaggio – dato da non trascurare – e comunque anche loro hanno firmato lo striscione in italiano che recita, appunto, «La legge è uguale per tutti, vogliamo giustizia». Ma quale?
Domanda dopo domanda, alla fine viene fuori che nella foltissima comunità cinese del comprensorio si vive come una via crucis il controllo delle aziende nel quadro del progetto «Lavoro Sicuro», avviato congiuntamente dagli enti locali, le Asl e le procure, dopo il rogo che il primo dicembre 2013 costò la vita a sette lavoratori cinesi nel capannone pratese dove aveva sede la ditta «Teresa Moda».
Per quella strage operaia sono già stati condannati in primo grado sia i responsabili cinesi dell’azienda, che facevano lavorare, mangiare e dormire i loro connazionali in condizioni inenarrabili di degrado, di pericolo e di autentica schiavitù, che i proprietari italiani del capannone: due fratelli pratesi che, come buona parte dei loro concittadini, avevano affittato (succede ormai da un quarto di secolo) a peso d’oro la loro proprietà. Fregandosene di quanto accadeva all’interno.
Da allora si cerca, lodevolmente, anche di riconquistare una legalità «dimenticata» per vent’anni. Con gli inevitabili effetti collaterali: «Troppi controlli per noi – ha raccontato un manifestante – quando di fronte ai furti nelle aziende, che ci hanno obbligato a dormire a turno in ditta, la polizia e i carabinieri non si fanno mai vedere». Questa chiave di lettura permette di vedere con una luce lievemente diversa la dinamica di quanto accaduto all’Osmannoro. Lì dove i circa 60 manifestanti iniziali, tutti della ditta di pelletteria controllata, erano arrivati ben presto a oltre 300, e nella notte a superare il migliaio di unità.
Al tempo stesso la forza dei numeri porta Enrico Rossi a commentare: «Né per la sicurezza, né per l’ambiente, né per le tasse devono essere consentite aree di illegalità. Uguali nei diritti e nei doveri. Chi ha sbagliato dovrà pagare». Già, perché in occasione dell’ultima apertura dell’anno giudiziario, erano stati visti nel dettaglio i risultati ottenuti grazie al potenziamento delle attività di vigilanza e controllo. I numeri dunque: dal primo settembre 2014 al 31 dicembre 2015 erano state controllate 4.415 imprese, e di queste il 66,2%, due terzi del totale, non era in regola. «In quattordici mesi di lavoro – dicono quelli di “Lavoro Sicuro” – abbiamo notato che alla prima visita, sette, otto aziende su dieci latitano sulla sicurezza. Allora pagano: 3 milioni e 800mila euro riscossi al giugno 2015, diventati circa 6 milioni a dicembre. Va anche detto che dopo le visite, e le multe, le aziende che avevano ottemperato alle prescrizioni sono ben l’ 84,4%».
Anche in questo 2016 i controlli sono andati avanti, con un’agenda che prevede di arrivare a 7.700 aziende visitate entro la fine dell’anno. Oltre la metà solo a Prato e provincia, il resto nella grande Chinatown che comprende anche l’area fiorentina e quella pistoiese. La grande Chinatown, dove secondo gli investigatori l’illegalità è diventata una regola anche per le ditte italiane rimaste su piazza. E dove l’evasione fiscale è stata calcolata in un miliardo di euro l’anno. «Il mancato rispetto delle regole in alcune aziende – osserva Dalida Angelini che guida la Cgil Toscana – mette in discussione anche quelle gestite nell’ambito della legge. Quindi condanno qualsiasi atteggiamento che metta in discussione la verifica e l’applicazione delle regole. Mi sembra il minimo».
Se poi i manifestanti cinesi vogliono chiedere al console di poter organizzare domenica un corteo di protesta, valgono le parole dette mesi fa daL procuratore pratese Giuseppe Nicolosi: «E’ un dato di fatto che a Prato le ditte cinesi in particolare operano tutte con trasferimenti in contanti, che sono l’anticamera per l’evasione. In una società evoluta come quella di Prato non è ammissibile che tutti gli operatori commerciali sappiano, e subiscano il fatto, che nelle notti tra il sabato e la domenica arrivano a caricare i furgoni di merce, e che i pagamenti avvengono in contanti Sfuggendo ai controlli fiscali».
Fonte: Il manifesto
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