Intervista a Angus Deaton di Eugenio Occorsio
Globalizzazione e diseguaglianze, due facce della medaglia. Come valorizzare la prima senza accentuare le seconde, un'equazione intorno alla quale si scervellano da anni economisti di tutto il mondo. E la missione di una vita per Angus Deaton, classe 1945, nato a Edimburgo e oggi docente a Princeton dopo aver insegnato a Cambrige e Brixton, che grazie ai suoi studi sulla povertà e le ingiustizie insite nella globalizzazione ha vinto il Nobel per l'economia nel 2015. "Quello che non riesco a spiegarmi, che non mi dà pace, è che a favore della conservazione più retriva, da Farage a Trump, si siano schierate le fasce più svantaggiate, dagli abitanti di Tower Hamlets, il distretto degli immigrati di Londra dove il 30% dei bambini vive sotto la soglia di povertà, a quelli di Sunderland, una cittadina che grazie alla globalizzazione vive quasi esclusivamente in virtù di una fabbrica della Honda".
Lei ha conservato la doppia cittadinanza: ha votato?
"Macché. C'è una strana legge nel Regno Unito che impedisce di votare agli expat che vivono da più di 15 anni all'estero. La legge viene bypassata di solito con misure ad hoc del governo. Stavolta, niente. L'ennesimo autogol di Cameron. Ero sicuro di poter votare Remain".
Come la maggior parte dei suoi connazionali scozzesi.
"La Scozia ha legami con l'Europa più forti dell'Inghilterra, pensi solo che prevale la religione cattolica. Ha anche una tradizione illuministica di rispetto. Ma a parte la Scozia, il pericolo è quello di tornare a un'Europa divisa e preda dei nazionalismi come all'inizio del Novecento. Roba da rabbrividire. Vede? Stiamo qui a parlare di scenari di guerra, mentre l'Europa è nata dalla pace e per la pace".
La Brexit avrà effetti sulla globalizzazione?
"Innanzitutto non sono sicuro che la Brexit ci sarà. Anzi. Ci sono tante circostanze che possono evitarla che, a mio giudizio, alla fine non se ne farà nulla. Certo, se invece si andrà fino in fondo, il colpo alla globalizzazione sarà pesante, per la semplice ragione che ci sarà un brusco calo degli interscambi commerciali e quindi un rallentamento dell'economia mondiale. Al quale si accompagnerà una riduzione dei movimenti di personale qualificato all'interno dell'Europa, che è un fattore trainante della crescita. L'incertezza continuerà a lungo, il che è un male per tutti. Meno soldi saranno in circolazione e su di essi si avventeranno con maggior cupidigia i soliti già ricchi e potenti".
Potrebbe essere un'occasione per ripensare ai tanti errori in tema di diseguaglianze?
"Veramente sarebbero accentuate. Ma la realtà è difficile da prevedere. La Gran Bretagna è diventata, dai tempi della Thatcher, il terreno di coltura europeo delle diseguaglianze. In altri Paesi, dalla Scandinavia al Mediterraneo, la situazione è meno drammatica. Ma la Gran Bretagna sembra aver preso il peggio dall'America, campione mondiale delle diseguaglianze. Londra ha ora abbinato questa leadership negativa a una imperdonabile insofferenza contro gli immigrati. Nel mondo occidentale si diffonde anziché ridursi quello che Thomas Piketty chiama "capitalismo patrimoniale": sono i ricchi a fare le leggi, a loro beneficio. Si innescano reazioni a catena, e la stessa democrazia finisce col soffrirne perché si diffonde la sensazione che il proprio voto non conti nulla per modificare la situazione. Da diseguaglianza nasce diseguaglianza: oltretutto questo rallenta la crescita mondiale e riduce le possibilità che la globalizzazione sia davvero un fattore di sviluppo. Se a dominare il quadro restano i ricchi, finisce che lo stesso welfare state ne soffre perché ai ricchi non interessa la copertura assicurativa pubblica. Vede perché sono interconnesse globalizzazione e diseguaglianze?"
Lei "nasce" matematico. Quali sono i conti attuali delle diseguaglianze?
"Ho combattuto battaglie strenue perché l'occidente non si facesse illusioni. Nel 2011 la Banca Mondiale mi ha finalmente ascoltato e ha portato da un irrealistico dollaro al giorno a 1,90 la soglia di povertà. Di colpo i poveri balzarono da 1,3 a 1,8 miliardi, oggi fortunatamente si sono ridotti, secondo questo standard, a 887 milioni. Un numero ancora gigantesco, inaccettabile. Il benessere e l'egoismo dei pochi al top sono una minaccia alla sopravvivenza di tutti gli altri".
Nel suo ultimo libro The Great Escape ("La grande fuga", pubblicato in Italia dal Mulino nel 2015) lei racconta proprio la disperazione e l'inarrestabilità di questa marea umana che si riversa da sud a nord. C'è qualche rimedio? Forse gli investimenti in loco proposti dall'Italia con il migration compact?
"Vede, mandare incentivi a quei Paesi ha avuto certo grandi effetti positivi. In India quattro quinti delle donne vanno a scuola, delle loro madri solo la metà. Un bambino dell'Africa sub-sahariana ha più possibilità di arrivare al suo primo anno di vita di quante non ne avessero i figli dei minatori dello Yorkshire, qual era mio padre, un secolo fa (sia il nonno che il padre di Deaton lavoravano nella miniera di Thurcroft, una delle più pericolose, chiusa nel 1991, ndr). Il problema è che spesso i fondi di solidarietà indirizzati nei Paesi più disagiati del pianeta - e parliamo di aiuti dell'ordine dei 100 miliardi annui - o rispondono a interessi dei donatori o finiscono nelle tasche di qualche potentato locale senza arrecare benefici adeguati alla popolazione interessata. La globalizzazione sana è un'altra cosa, e potrebbe essa sì contribuire al riscatto di quelle aree: dovrebbe preoccuparsi di diffondere sia infrastrutture di base come autostrade o linee telefoniche, che conoscenza e formazione. È un vero prendersi cura con partecipazione delle vicende del resto del mondo, anche le più imbarazzanti. E non lasciare che il destino degli individui sia affidato al caso. Finché la vita offrirà opportunità o fortune che non tutti possono afferrare, il progresso creerà fatalmente diseguaglianze, e non distribuirà equamente la possibilità di vivere a lungo con tranquillità. E altrettanto imperfetta sarà la globalizzazione".
Fonte: La Repubblica
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