di Roberto Romano
I vizi italiani della così detta classe dirigente «padronale» sono storici ed endemici, ma qualcosa di più profondo è intervenuto. Sebbene i padroni sono da sempre vicino al governo per definizione, gli interessi sono pur sempre interessi, la classe dirigente padronale nel corso del tempo è cambiata in profondità. Per alcuni versi sembra avere perso la propria matrice, cioè quella di fare profitto. L’assillo del lavoro è da sempre un evergreen, ma il contesto economico, sociale e di struttura del capitale rimanevano il cuore del progetto padronale. Senza scomodare Pirelli, Ansaldo, Breda, Tosi e il più amato Olivetti, la storia della classe dirigente padronale mi sembra più ricca di quella degli attuali imprenditori. Nel bene e nel male hanno concorso a fare l’Italia e costruito la necessaria struttura per diventare un paese europeo.
Inoltre, consapevoli della loro debolezza, l’intervento pubblico legato all’IRI, Enel, ENI ed altre società pubbliche era criticato dal punto di vista dell’efficienza, ma nessuno degli imprenditori storici ha nascosto l’utilità di queste società per sostenere le imprese private. Anche questi imprenditori salivano e/o scendevano dal carro, in realtà non tutti perché qualcuno ha fatto la resistenza oppure lavorato per uscire dal nazi-fascismo, ma lo facevano in ragione di un progetto un attimo più robusto. Il conflitto capitale-lavoro in Italia è stato durissimo, ma si trattava pur sempre di un conflitto riconosciuto. Le istituzioni del capitale, tra cui anche quella pubblica, lavoravano per trovare equilibri superiori o almeno nessuno lavorava per l’eliminazione del suo avversario. Capitale e lavoro confliggevano, ma non potevano annientarsi.
Inoltre, consapevoli della loro debolezza, l’intervento pubblico legato all’IRI, Enel, ENI ed altre società pubbliche era criticato dal punto di vista dell’efficienza, ma nessuno degli imprenditori storici ha nascosto l’utilità di queste società per sostenere le imprese private. Anche questi imprenditori salivano e/o scendevano dal carro, in realtà non tutti perché qualcuno ha fatto la resistenza oppure lavorato per uscire dal nazi-fascismo, ma lo facevano in ragione di un progetto un attimo più robusto. Il conflitto capitale-lavoro in Italia è stato durissimo, ma si trattava pur sempre di un conflitto riconosciuto. Le istituzioni del capitale, tra cui anche quella pubblica, lavoravano per trovare equilibri superiori o almeno nessuno lavorava per l’eliminazione del suo avversario. Capitale e lavoro confliggevano, ma non potevano annientarsi.
Poco o tanto che sia era un modello. Con tutto il rispetto che posso avere per Renzi e l’attuale classe dirigente padronale, di riflesso anche quella delle associazioni intermedie, qualcosa è mutato nel progetto Paese. La letteratura nazionale assegna alla storica sconfitta dei lavoratori Fiat un peso rilevante. È un pezzo di storia del nostro paese, ma quella sconfitta era legata anche alla struttura produttiva che cambiava e alla necessità di introdurre nuove tecniche di produzione, sia dal lato della meccanizzazione e sia dal lato della organizzazione del lavoro. Quello che voglio sottolineare è questo: alla fine si discuteva nell’ambito di imprese capitalistiche a tutto tondo, dove il capitale giocava un ruolo fondamentale. I costi delle imprese erano quelli tipici delle grandi imprese oligopolistiche, in cui il costo del capitale era prevalente rispetto al costo del lavoro. Il mutamento genetico e culturale della classe dirigente padronale arriva forse dopo, in particolare con Antonio D’Amato e la sua battaglia per abolire l’art.18 dello statuto dei lavoratori. Per la prima volta il profitto è legato al costo del lavoro in senso stretto, nonostante il costo del capitale per il funzionamento di una impresa sia prevalente. Un bel problema. La crescita del Paese, per scelta politica e padronale, diventa un problema di costo e non più del che cosa, come e per chi produrre. Sostanzialmente le imprese italiane immagino il profitto solo nella misura in cui ottengono incentivi fiscali e una riduzione del costo del lavoro. Si tratta proprio di margini e non di profitti legati all’imprenditore innovatore. Il ritardo italiano rispetto agli imprenditori europei è proprio nella logica del profitto.
Da allora le imprese italiane si de-specializzano e ogni qual volta fanno degli investimenti si registra una crescita delle importazioni di alta tecnologia. Se il sistema economico rinuncia al suo futuro e le imprese realizzano profitto solo al margine del costo del lavoro, non sorprende la volubilità degli stessi. Gli sconti fiscali non saranno mai sufficienti per sostenere il profilo dei loro profitti. Per fare ciò occorre sempre qualcuno abbastanza creativo per realizzare e promuovere nuovi tagli di spesa e tasse. Tutti sono saliti sul carro di Renzi perché intercettava quella idea di profitto. Forse oggi non sono sufficienti le promesse di Renzi e cominciano a pressarlo.
Forse aspettano qualcuno di più affidabile, ma la matrice rimane la stessa. Potrebbe anche esserci un ripensamento della classe dirigente padronale rispetto al ruolo che dovrebbero avere in una società moderna, ma è meglio non farci troppe illusioni. Rimane aperta una questione che nessuno vuole affrontare: se cadesse Renzi, cosa ci aspetta dopo? Mi spiego meglio: Renzi non potrà mai essere il politico che guida la ri-progettazione del Paese, ma la classe dirigente tutta ha mai lavorato per delineare almeno il profilo necessario per realizzare un cambiamento di struttura? Sul punto tutti siamo chiamati a dare un contributo. Alla fine penso che la forza di Renzi e direttamente proporzionale alla debolezza dei «progetti» alternativi.
Fonte: il manifesto
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