di Luigi Ferrajoli
C’è un fatto che accompagna, da circa trenta anni, la lunga crisi della democrazia italiana. All’aggravarsi di tutti i suoi aspetti – il discredito e lo sradicamento sociale dei partiti, la loro subalternità all’economia e alla finanza, la loro opzione comune e sempre più esplicita per le controriforme in materia di lavoro e di stato sociale – ha fatto costantemente riscontro il progetto di indebolire il Parlamento e di rafforzare il governo, tramite modifiche sempre più gravi della seconda parte della Costituzione repubblicana: dapprima, negli anni Ottanta e Novanta, i tentativi delle Commissioni Bozzi, De Mita-Jotti e D’Alema; poi l’assalto ben più di fondo alla Costituzione da parte del governo Berlusconi con la riforma del 2005, scritta dai cosiddetti “quattro saggi” in una baita di Lorenzago e bocciata dal referendum del giugno 2006 con il 61% dei voti; infine l’ultima, non meno grave aggressione: la legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi approvata il 12 aprile 2016, sulla quale si svolgerà il referendum confermativo nel prossimo ottobre.
Di nuovo, come sempre, l’argomento a sostegno della revisione, oltre a quello penoso e demagogico della riduzione dei costi della politica, è stato la necessità di accrescere la “governabilità” nel tentativo, ancora una volta, del ceto di governo di far ricadere sulla nostra carta costituzionale la responsabilità della propria inettitudine.
L’attuale revisione costituzionale investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra Costituzione, diversa da quella del 1948. Ma la nostra Costituzione non consente l’approvazione di una nuova Costituzione, neppure ad opera di un’ipotetica assemblea costituente che pur decidesse a larghissima maggioranza.
Il solo potere ammesso dall’articolo 138 della nostra Costituzione è un potere di revisione, che non è un potere costituente ma un potere costituito. Di qui il primo profilo di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138 in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.
La differenza tra i due tipi di potere è radicale: il potere costituente è un potere sovrano, che l’articolo 1 attribuisce al “popolo” e solo al popolo, sicché nessun potere costituito può appropriarsene; il potere di revisione è invece un potere costituito, il cui esercizio non può consistere nella produzione di una nuova Costituzione, ma solo in singoli e specifici emendamenti onde sia consentito ai cittadini, come ha più volte stabilito la Corte Costituzionale, di esprimere consenso o dissenso, nel referendum confermativo, alle singole, specifiche revisioni.
una questione elementare di teoria del diritto e di grammatica giuridica: l’esercizio di un potere costituito non può trasformare lo stesso potere del quale è esercizio in un potere costituente senza degradare ad eccesso, o peggio ad abuso di potere. Ed è paradossale che di questo eccesso e di questo abuso di potere si sia fatto fin dall’inizio promotore il Presidente della Repubblica, che aveva giurato fedeltà a questa Costituzione e che di essa avrebbe dovuto essere il custode e il garante.
Ma è anche una questione di teoria politica e di grammatica democratica: la differenza e la distinzione tra potere costituente e potere costituito, formulata da Sieyés più di due secoli fa, rappresenta infatti una sorta di postulato di qualunque costituzionalismo democratico. Giacché le costituzioni sono norme che costituiscono e disciplinano i pubblici poteri, imponendo loro limiti e vincoli. È questo il loro senso e il loro ruolo. E perciò non possono gli stessi poteri costituiti dalla Costituzione cambiare radicalmente la Costituzione dalla quale sono disciplinati e limitati.
Si tratta di una logica del costituzionalismo adottato da quasi tutte le costituzioni e confermato dall’esperienza costituzionale di tutte le grandi democrazie. Giacché le costituzioni sono una cosa seria, che nelle democrazie serie sono emendabili, cioè suscettibili di singole e specifiche riforme, ma non modificabili per intero.
Proviamo a pensare come sarebbe accolta l’idea di una nuova Costituzione negli Stati Uniti. Riflettiamo sul perché mai nessun partito, nessun presidente, nessun uomo politico penserebbe di proporre un cambiamento dell’intera Costituzione statunitense del 1787, da tutti concepita, difesa e sacralizzata come il patto costituente e la carta d’identità della nazione. Della Costituzione degli Stati Uniti sono infatti possibili solo emendamenti, la cui approvazione richiede, secondo il suo articolo 5, una procedura gravosissima: che la proposta di un semplice emendamento sia avanzata dai due terzi dei componenti del Congresso o da due terzi delle legislature dei vari Stati, e che nel primo caso l’emendamento sia approvato se votato dalle legislature di tre quarti degli Stati e, nel secondo, se votato dai tre quarti dei membri di un’apposita Convenzione convocata dal Congresso.
In quasi nessun Paese, poi, è consentita la revisione totale della Costituzione, ma solo la revisione parziale mediante singoli emendamenti, sottoposti peraltro a procedure di revisione ben più gravose di quella prevista dal nostro articolo 138: l’approvazione da parte dei due terzi dei membri delle due Camere in Germania e in Giappone e da parte dei tre quinti in Spagna, seguita sempre in Giappone, e in Spagna su richiesta di un decimo dei membri di una Camera, da un referendum popolare.
Dove è prevista la revisione totale, come in Spagna e in Svizzera, essa è sottoposta a procedure talmente laboriose da renderla quasi impossibile e comunque totalmente sottratta a colpi di mano di maggioranza. In base all’articolo 168 della Costituzione spagnola, si procede dapprima alla votazione del nuovo testo a maggioranza di due terzi di ciascuna Camera, poi allo scioglimento immediato delle Cortes, poi alla ratifica della nuova Costituzione a maggioranza di due terzi delle nuove Camere e infine al referendum sulla revisione approvata.
In Svizzera, in base all’articolo 120 della Costituzione del 1874, per la revisione totale si richiede anzitutto che la proposta sia avanzata da una delle due Camere o da 100.000 elettori; successivamente si procede al referendum sul quesito “se la riforma totale debba o no aver luogo”; poi il Parlamento viene sciolto; poi si procede alla sua rielezione per elaborare la nuova Costituzione; infine, in base all’articolo 123, la Costituzione riformata viene sottoposta e referendum.
Fonte: Il manifesto Bologna
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