di Pietro Saitta
Tre. È questo il numero degli antropologi che, nell’arco di una settimana, sono balzati all’onore delle cronache per essere stati denunciati, processati o condannati per attività legate alle propria ricerche. In particolare sono questi i casi di Roberta Chiroli e Franca Maltese, presenti in qualità di osservatrici a una medesima manifestazione No-Tav in Val di Susa e di Enzo Vinicio Alliegro, anch’egli colpevole di avere presenziato all’occupazione di una stazione ad opera del movimento contrario alle eradicazioni degli ulivi affetti da xylella in Puglia.
Le tre vicende hanno colpito una parte dell’opinione pubblica e generato pronte reazioni tra gli accademici. All’indomani della sentenza che ha condannato una delle due antropologhe denunciate in Val di Susa, il sito Effimera ha immediatamente stilato un appello a favore della libertà di ricerca a cui hanno aderito oltre un migliaio di studiosi e di cittadini. Mentre, subito dopo avere appreso della denuncia ai danni del prof. Alliegro, la principale associazione scientifica di antropologia (Anuac) ha prodotto un documento a sostegno del proprio membro, finalizzato a legittimarlo e rivolto innanzitutto al Tribunale competente. Inoltre su importanti quotidiane e riviste sono apparsi alcuni articoli a difesa della libertà di ricerca e di biasimo per l’operato dei giudici.
Come i miei colleghi sono anch’io convinto che la libertà di ricerca sia da tempo a rischio e che all’elenco sopra riportato andrebbero quantomeno aggiunti riferimenti alla presenza di agenti della Digos a convegni universitari (a Messina, nel corso del workshop Transitory Lives) e presentazioni di libri (“Per uno Stato che non tortura”, sempre a Messina), senza contare le intimidazioni più o meno sottili rivolte senza fragori a ricercatori particolarmente attivi sul fronte del sociale; così come gli attacchi del Corriere della Sera e di un sindacato di polizia nei confronti dell’Università Magna Graecia di Catanzaro in occasione dell’assegnazione di un contratto di insegnamento all’ex leader No-global Francesco Caruso, oppure quelli rivolti dalla stampa nazionale di destra e da associazioni di veterani della Folgore contro Charlie Barnao e me stesso per un articolo sull’autoritarismo nelle caserme italiane.
Tuttavia, contrariamente ai colleghi che hanno sin qui preso la parola, pur essendo preoccupato per lo stato della libertà di ricerca, non credo affatto che sia questo l’elemento più grave che emerge dalle vicende summenzionate. Ciò che preoccupa maggiormente, infatti, è lo stato delle libertà politiche tout court.
Roberta, Franca ed Enzo sono stati denunciati non per avere commesso reati – per esempio occupazioni, sabotaggi o devastazioni – ma per essere stati presenti a manifestazioni politiche. I filmati realizzati da polizia e manifestanti mostrano infatti come tutti loro avessero occupato posizioni defilate rispetto ai fatti che andavano compiendosi (e che non erano comunque né sanguinari né violenti, per quanto ne sappiamo). Ciò nonostante sono stati tutti deferiti in Tribunale e, in un caso, condannati per “concorso morale” (è il caso di Roberta Chiroli e del suo “noi partecipativo”).
Il modo in cui queste persone non violente e defilate, e, tuttavia, presenti a cortei, siano state mandate a processo, diventa così la cartina di tornasole di una pratica repressiva che è stata descritta da tempo e che consiste nel criminalizzare i movimenti territoriali e coloro che, anche senza essere propriamente militanti, si avvicinino a essi.
Se la Procura di Torino è capofila di questa modalità operativa (si pensi al caso di Erri De Luca), altri tribunali si stanno evidentemente adeguando. Il caso pugliese o quello siciliano del movimento No-Muos ne sono altrettanti esempi.
A ciò occorre aggiungere l’opera delle principali testate informative, impegnate, specie nel caso della Val di Susa, a tratteggiare i contorni di un terrorismo diffuso e collettivo: la Val di Susa come fucina dell’antagonismo radicale, insomma. Un antagonismo, pertanto, a cui è necessario dare una risposta adeguata.
In questa cornice, il caso delle ricercatrici e degli studiosi aiuta a svelare il gioco e a destrutturare il “discorso”. È lecito infatti domandarsi quante persone si ritrovino a processo, in Val di Susa così come altrove, per essere semplicemente discese in strada per reclamare diritti o visioni relative al proprio territorio. Per quante di loro si è agito penalmente, malgrado l’esistenza di filmati e altre prove che le scagionino e che anzi avrebbero dovuto prevenire il loro ingresso in un procedimento? Quante delle migliaia di denunciati per reati politici in Italia sono realmente colpevoli dei delitti imputati loro? Insomma, quante Roberte, Franche ed Enzi vi sono in questo momento in Italia, in attesa di giudizio oppure agli arresti?
Detto questo, certamente, vi è anche il problema della libertà di ricerca. Ma trovo davvero corporativa e un po’ grottesca questa pretesa all’“eccezionalismo universitario” innanzi la repressione di Stato avanzata da molti, in Italia così come all’estero. Ricordo per esempio come all’indomani della morte di Giulio Regeni fossero circolati su siti inglesi alcuni articoli che reclamavano una sorta di lasciapassare per i ricercatori. Un “lasciapassare” o una protezione per i ricercatori in un paese in cui gli scomparsi e gli assassinati si contavano a centinaia, se non migliaia… Un’idea, si ammetterà, ridicola se non addirittura oscena.
Qualcosa del genere la ritroviamo anche in questi giorni, quando pretendiamo che i ricercatori, per il semplice fatto di essere tali, debbano essere trattati in modo diverso da quei cittadini e da quei movimenti sociali che, con la loro semplice esistenza e presenza, si apprestano a diventare bersagli della repressione e a pagare con il carcere la propria pratica di cittadinanza attiva. Senza contare – dato che è di etnografia che in fondo parliamo – l’insostenibilità di un percorso partecipato di conoscenza dei fenomeni sociali che, da un lato, esige fiducia e accesso da parte dei gruppi studiati e, dall’altro, appare pronto a reclamare la propria diversità ed eccezionalità quando interviene la repressione e il gioco si fa pericoloso.
Ma, soprattutto, è possibile parlare di libertà di ricerca senza avere prima detto le due cose più importanti? Ossia che l’Università è un organo dello Stato tanto quanto lo sono polizia e magistratura (un organo che addirittura precede questi due, in quanto è quello che, conferendo i titoli, consente l’accesso alle posizioni di magistrato e di dirigente di pubblica sicurezza) e che i suoi membri hanno perciò il diritto e il dovere di stare lì ove si compiono i conflitti sociali? E, soprattutto, che tra i doveri degli accademici sta, da sempre, quello di dire la verità al potere (la “parresia” di Euripide, Socrate e Aristotele, per tacere di Michel Foucault)?
Credo che solo a partire da questa rivendicazione di uno statuto accademico dimenticato e negato – e, considerata la sistematica opera di smantellamento e discredito dell’Università italiana, dalla acquisizione da parte degli accademici della capacità di confliggere duramente con altri settori dello Stato – che sia possibile avanzare la pretesa a un qualsivoglia diritto alla libertà di ricerca. In assenza di tutto questo, gli studiosi potranno solo sperimentare, insieme al resto della cittadinanza, l’estensione di un insieme di tecniche repressive esercitate a lungo su popolazioni marginali e dimenticate (ultrà, immigrati e tossicodipendenti, in primis). Tecniche, infine, estese a tutti; ivi inclusi quei vasti settori della società che, come molti tra gli universitari, si credevano evidentemente immuni da rischi.
Immagine in apertura: Misha Gordin, New Crowd #54, 2001
Fonte: Effimera.org
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