di Marco Bersani
Il risultato delle recenti elezioni amministrative apre nuovi scenari nel nostro Paese: la pesante sconfitta del governo Renzi e del Pd si è espressa con una forte domanda di cambiamento, che da Napoli -con la riconferma di De Magistris- a Roma e Torino –con la netta vittoria di Virginia Raggi e Chiara Appendino, giovani sindache del M5S- attraversa l’intera penisola. Non è un caso se questa ribellione si sia evidenziata nella scelta sulla guida dei comuni e delle città: nonostante il contributo degli enti locali al debito pubblico italiano sia risibile (intorno al 2,1%) è sugli stessi che in questi ultimi quindici anni sono state scaricate tutte le misure per farvi fronte.
Un dato per tutti: nel periodo 2008/2014, il contributo richiesto agli enti locali –fra tagli ai trasferimenti e patto di stabilità interno- è passato da 1.650 a 16.665 miliardi (!). Facile immaginare cosa abbia voluto dire in termini di taglio dei servizi e delle prestazioni sociali, abbandono del territorio e delle periferie, dispersione e solitudine sociale.
Del resto, gli enti locali sono nel mirino per un ben preciso motivo: sono loro a “possedere” la gran parte della ricchezza sociale del paese –in termini di territorio, patrimonio pubblico e servizi pubblici locali. Una ricchezza quantificata dalla Deutsche Bank in ben 571 miliardi, e da tempo nel mirino dei grandi interessi speculativi e finanziari, alla ricerca di mercati sicuri e profittevoli.
I comuni sono dunque uno dei luoghi di precipitazione della crisi e uno dei terreni su cui si approfondiranno importanti conflittualità sociali.
Per questo è bene che, fuori da una astratta neutralità degli enti locali, i nuovi sindaci siano consapevoli di alcune fondamentali battaglie sulle quali sarà richiesto loro di prendere posizione.
Il primo terreno è quello del debito, utilizzato come ricatto per permettere la spoliazione delle comunità locali e la messa a valorizzazione finanziaria di tutti i beni comuni urbani. La radicale rimessa in discussione dell’ideologia del debito, attraverso l’avvio di audit pubblici e partecipati, potrebbe essere il primo passo per le comunità territoriali verso il diritto di riappropriarsi del proprio destino.
Un secondo terreno è quello della contestazione del patto di stabilità e del pareggio di bilancio, che in questi anni hanno prodotto solo instabilità sociale e aumento delle disuguaglianze. E’ un terreno decisivo per sindaci che vogliano abbandonare il ruolo di facilitatori della penetrazione dei grandi interessi finanziari sulla società, per riappropriarsi finalmente di quello di difensori delle comunità territoriali e degli uomini e le donne che le abitano. Da questo punto di vista, la messa in discussione dell’Anci, organismo da sempre subalterno ai diktat governativi, anche pensando ad una nuova aggregazione delle “municipalità ribelli”, diventa uno dei possibili tasselli del cambiamento.
Il terzo terreno è senz’altro quello della riappropriazione dei beni comuni urbani, sia per garantire diritti fondamentali alle comunità amministrate, sia per impostare sul riconoscimento degli stessi una nuova economia territoriale, ecologicamente e socialmente orientata.
Da questo punto di vista, il contrasto da parte dei Comuni del decreto Madia di privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali diviene dirimente, e dovrà vedere –in caso di sua approvazione- l’estendersi a macchia d’olio della disobbedienza territoriale.
Siamo dentro un tempo, in cui non si può più definirsi “sindaco di tutti” e occorre decidere se schierarsi con la città e gli abitanti che la vivono o con i poteri forti della speculazione immobiliare e finanziaria. Questione dirimente, che riguarda i sindaci, ma, naturalmente e soprattutto, le comunità territoriali, che devono riappropriarsi del futuro, iniziando dal presente.
Fonte: Attac Italia
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