di Carlo Crosato e Francesco Postorino
Il giornalista non può essere neutrale. Ridursi a «cronisti» di professione e mostrare indifferenza per l’onestà ricorda per vie traverse l’avvocato di oggi, colui che esibisce in Tribunale un logos elegante con il preciso intento di crear confusione e inseguire la clausola che dia «ragione» a chi ha torto. L’avvocato postmoderno, lontanissimo parente di quell’Atticus Finch in Il buio oltre la siepe, è un uomo di studio che all’Università impartisce lezioni di diritto, alimenta la dottrina ma si rivela neutrale rispetto alla verità. In questa direzione serpeggia la mafiosità tra i rami della giustizia, il potente può salvarsi e così la carta che contiene i nostri valori viene stracciata da figure competenti che leggono i codici con un occhio di riguardo al denaro.
Allo stesso modo, il giornalista si «lava le mani» e si nasconde dalla storia, dalle lotte politiche e culturali. Rivolge domande insipide e consegna il microfono al più forte, a chi non può essere disturbato nel suo racconto. Le voci circolano alla rinfusa, la dialettica si appiattisce e sale in cattedra un monologo che accende e riaccende il festival dell’ipocrisia. I salotti televisivi sono presi in ostaggio da impostori in giacca e cravatta sempre più numerosi che recitano passi a memoria. Scienziati, artisti e giovani filosofi si alternano con nonchalance sollecitati dal plauso di un pubblico divertito. Ispirati dalla colonna sonora di «Via col vento», gli attori diretti dal regista Bruno Vespa vengono a quanto pare rimproverati se non seguono il copione precostituito. Il povero Brunetta ne ha fatto le spese di recente. La star di «Porta a Porta» viene considerata professionalmente capace in quanto sa condurre, manovrare. Ma guai a contraddirla. Guai a contraddire quel «buon senso» che trapela dal suo salotto. Cuce spettacoli su misura, si abbandona al trash, ruba la prima serata, non riposa mai. Ogni scusa è buona per addormentare un telespettatore già disincantato. Persino il suo consueto libro di fine anno s’iscrive in un contesto che premia l’effimero e guida la triste stagione del moderatismo. Non si può essere moderati o tiepidi coordinatori in tempi che richiedono coraggio per la verità.
Allo stesso modo, il giornalista si «lava le mani» e si nasconde dalla storia, dalle lotte politiche e culturali. Rivolge domande insipide e consegna il microfono al più forte, a chi non può essere disturbato nel suo racconto. Le voci circolano alla rinfusa, la dialettica si appiattisce e sale in cattedra un monologo che accende e riaccende il festival dell’ipocrisia. I salotti televisivi sono presi in ostaggio da impostori in giacca e cravatta sempre più numerosi che recitano passi a memoria. Scienziati, artisti e giovani filosofi si alternano con nonchalance sollecitati dal plauso di un pubblico divertito. Ispirati dalla colonna sonora di «Via col vento», gli attori diretti dal regista Bruno Vespa vengono a quanto pare rimproverati se non seguono il copione precostituito. Il povero Brunetta ne ha fatto le spese di recente. La star di «Porta a Porta» viene considerata professionalmente capace in quanto sa condurre, manovrare. Ma guai a contraddirla. Guai a contraddire quel «buon senso» che trapela dal suo salotto. Cuce spettacoli su misura, si abbandona al trash, ruba la prima serata, non riposa mai. Ogni scusa è buona per addormentare un telespettatore già disincantato. Persino il suo consueto libro di fine anno s’iscrive in un contesto che premia l’effimero e guida la triste stagione del moderatismo. Non si può essere moderati o tiepidi coordinatori in tempi che richiedono coraggio per la verità.
L’autentico giornalista è un interprete scomodo che deve innervosire con intelligenza e alto spirito critico i titolari dell’inganno, i mafiosi e i tiranni. Deve parteggiare per quei deboli continuamente zittiti dalle logiche della corruzione, dal furbo di turno. Se il quarto potere volta le spalle al grido di aiuto e cammina a braccetto con i vertici del sistema, magari dietro lauto compenso, smette di esercitare con rettitudine la sua professione e, al pari del nostro avvocato, insulta il sentimento repubblicano. Il giornalista deve sporcarsi le mani, interloquire con i volti della sofferenza e parlarne con giudizio. Troppi protagonisti, aristocratici e showman perdono di vista gli aspetti cruciali del giornalismo e annaspano nel buio della retorica, del risaputo, delle verità pronunciate a metà. Si cerca lo scandalo a tutti i costi, la «curiosità» della folla come sosteneva Heidegger, tutto perché i veri scandali che riempiono le nostre vite, in primis lo sfruttamento economico e il disagio sociale, non fanno più notizia. Il medium ha brama di numeri: quelli della tiratura, dell’auditel, dei click. Egli dirige un circolo impazzito e comanda di dare massima visibilità al discorso più enfatico, più spettacolare, violento ed emotivamente coinvolgente. Un circolo perverso che si chiude e riprende senza alcun elemento di promozione del pensiero, senza che nessun arricchimento sia davvero proposto a chi, cittadino privato, è pur sempre coinvolto in dinamiche che richiedono la sua partecipazione. Entro uno scenario simile urge un’azione critica e trasparente che renda possibile una reale maturazione del confronto pubblico.
Il carattere pubblico della sfera in cui si animano i dibattiti presuppone la cura e la manutenzione degli strumenti che in quel dibattito verranno sfruttati. Cura significa che tutti, e in particolar modo chi vigila sul dilatarsi del dibattito, sono chiamati a porsi alla ricerca dell’intesa, della composizione delle differenti prospettive con cui ciascuno può affacciarsi sulle questioni. Ma la sfera pubblica, quella che potremmo chiamare la «politica» nel senso più ampio possibile di questo termine, non è un semplice ambiente pubblico, un parco in cui si passeggia nell’anonimato, senza sporcare e senza doversi incontrare con gli altri. Questa sfera non richiede una «cura negativa»: se così fosse, vi ritroveremmo un pluralismo di voci reciprocamente ignoranti e tese, ancora una volta, a prevaricarsi l’una con l’altra anziché a convergere.
La sfera pubblica – e il servizio pubblico cui assolvono i mezzi di comunicazione –, più che limitarsi a farsi struttura garante perché tutti possano esibire la propria visione del mondo, va impegnata nell’animazione di una pluralità in cui l’intesa che informa il dibattito sia votata a una prassi compositiva entro cui i partecipanti mettano in comune ciò che è proprio, lo offrano come visione particolare da far reagire nel contatto e nella confidenza presa con le altrui visioni particolari.
Cosa significa, allora, l’impossibilità per il giornalista, per il mediatore, di rimanere asettici, neutrali, insipidi e tiepidi? Significa snidare la parola spettacolare per scavare nel vuoto che tenta di celare, nelle strategie che sfrutta, per far emergere il non detto e renderlo trasparente agli interlocutori. Ma significa soprattutto scuotere la possanza granitica con cui ogni partecipante mira a presentarsi nel dibattito pubblico: impedire che la visione particolare si erga in modo irriflesso a universale, costringerla a riconoscersi modesto contributo alla costruzione di un orizzonte di convivenza e non programma definitivo da estendere universalmente.
Fonte: MicroMega online
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