di Gianfranco Sabattini
Il fenomeno dell’urbanizzazione costituisce uno dei motivi di studio della storia contemporanea, ma anche uno dei problemi di più difficile soluzione; al contrario delle città del passato, che si sono sempre estese con andamento concentrico, oggi, quelle contemporanee, con la rivoluzione dei trasporti e delle tecnologie digitali, hanno preso a svilupparsi casualmente e disordinatamente (sprawl), generando l’urbanizzazione di vaste aree, dove zone agricole sono state riconvertite in insediamenti civili e produttivi, e dando origine al problema delle periferie. A livello globale, un numero sempre più alto di persone preferisce vivere nelle aree urbane, piuttosto che in quelle rurali. Nel 2014, la popolazione mondiale residente nei centri urbani è stata pari al 54%, rispetto al 30% del 1950. Si calcola che per il 2050, la percentuale salirà fino al 66%.
Oggi, le regioni più urbanizzate sono l’America Latina, in particolare i Caraibi (80%) e l’Europa (73%). Al contrario, Africa e Asia restano prevalentemente rurali, con l’urbanizzazione delle loro popolazioni compresa fra il 40 e il 48%.
Oggi, le regioni più urbanizzate sono l’America Latina, in particolare i Caraibi (80%) e l’Europa (73%). Al contrario, Africa e Asia restano prevalentemente rurali, con l’urbanizzazione delle loro popolazioni compresa fra il 40 e il 48%.
Mentre la popolazione rurale del mondo, dal 1950 ad oggi, è cresciuta lentamente, la popolazione urbana, per contro, è aumentata rapidamente, passando da 746 milioni nel 1950, a 3.900 milioni nel 2014. Con la continua crescita demografica, l’urbanizzazione dovrebbe raggiungere, entro il 2050, 2,5 miliardi di persone. Quasi la metà degli abitanti delle città di tutto il mondo risiede in piccoli insediamenti, con meno di 500.000 abitanti, mentre solo uno su otto vive in 28 mega-città con più di 10 milioni di abitanti ciascuna.
Tokyo è la città più grande del mondo, con 38 milioni di abitanti, seguita da Delhi con 25 milioni, Shanghai con 23 milioni, Città del Messico, Mumbai e San Paolo, con circa 21 milioni di abitanti ciascuna. Entro il prossimo quindicennio, il mondo dovrebbe avere 41 mega-città; si prevede che nel 2030 Tokyo diventi la città più grande del mondo, con 37 milioni di abitanti, seguita “a ruota” da Delhi, dove la popolazione è destinata a salire fino a 36 milioni di abitanti. Considerando che diversi decenni fa la maggior parte dei grandi agglomerati urbani si trovava nelle regioni più sviluppate, oggi, invece, esse si concentrano nel Sud del mondo, con numerosi agglomerati a più rapida crescita (quelli di medie dimensioni, con 500.000 e fino a 1 milione di abitanti) situati in Asia e in Africa.
Le città sono importanti fattori di sviluppo, di miglioramento del livello di benessere e di riduzione della povertà, perché favoriscono livelli più alti di alfabetizzazione e di educazione, migliori condizioni di assistenza sanitaria e di accesso ai servizi sociali e maggiori opportunità di accesso al mercato del lavoro, di inclusione sociale e di partecipazione culturale e politica. Tuttavia, la crescita urbana, rapida e non pianificata, minaccia ora la sostenibilità dei migliorati livelli di vita conseguiti, se non saranno potenziate le infrastrutture necessarie o se non verranno attuate politiche che garantiscano vantaggi equamente condivisi della vita cittadina siano equamente condivisi. Oggi, infatti, nonostante questi vantaggi offerti dalle città siano indubbiamente maggiori rispetto al passato, le aree urbane sono caratterizzate da forti disuguaglianze, in quanto sono cresciuti i poveri “urbanizzati”, che vivono in condizioni molto al di sotto degli standard di una vita degna di essere vissuta. Nella stragrande maggioranza delle città, la rapida espansione urbana non regolata ha portato con sé il fenomeno della “periferia”, divenuto sinonimo di esclusione e devianza sociale, inquinamento, degrado ambientale e livelli di spesa pubblica insostenibili.
I governi dovranno impegnarsi ad attuare politiche idonee a garantire che il fenomeno della crescita continua dell’urbanizzazione diventi sostenibile, dal punto di vista ambientale e sociale, secondo le direttive emerse dalla Conferenza di Rio del 2012 (”Il futuro che vogliamo”); la Conferenza ha infatti riconosciuto che le città possono “aprire la strada” verso società sostenibili, sia socialmente ed economicamente, che ecologicamente, a patto che i problemi della loro espansione siano risolti secondo un approccio olistico, che abbracci cioè tutti contemporaneamente le criticità, in modo da tener conto degli esiti di tutte le loro reciproche relazioni; tutto ciò, in considerazione del fatto che un’urbanizzazione sostenibile richiede innanzitutto che, con l’espansione delle città, si potenzino di continuo le infrastrutture necessarie per i servizi igienico-sanitari, energia, trasporti, informazione e comunicazione; occorre, inoltre, che siano garantite pari opportunità di accesso ai servizi, che sia ridotto il numero di persone che vivono in condizioni degradate negli slum, che siano preservate le risorse naturali all’interno della città e delle zone circostanti e che siano realizzate politiche diversificate di pianificazione e gestione della distribuzione spaziale delle popolazioni residenti.
Per l’attuazione di queste politiche,lo scoglio maggiore da rimuovere è costituito dal fenomeno delle “periferie”. Come si è detto, esse sono nate con l’espansione casuale e disordinata delle città, originando, come viene osservato nell’”Editoriale” del n. 4/2016 di “Limes”, totalmente dedicato al problema, “pezzi di non città e di non campagna, nei quali si celebra l’impotenza dell’architettura nel forgiare l’abitato”. Battezzare, perciò, in senso urbano la nostra epoca è limitativo; più appropriato forse sarebbe definirla periferia, o suburban, “con il polisemico vocabolo inglese che nella sua sfera semantica include tanto i sobborghi di linde villette a schiera che punteggiano il paesaggio nordamericano quanto le favelasbrasiliane, le villas miseria bonaerensi, gli slumsterzomondiali, i casermoni nostrani”.
Tra l’altro, le difficoltà che si incontrano già nella definizione del fenomeno problema è dovuto al fatto che il sostantivo periferia “è lemma passpartout, di cui in un recente convegno del Massachusetts Institute of Technology sono state censite almeno duecento diverse, talvolta contraddittorie accezioni”. Le polemiche fra gli addetti ai lavori per la soluzione del problema della periferia sono perciò inevitabili, col risultato di portare solo all’elaborazione di progetti che “si pretendono scientifici, di scarsa pregnanza euristica. Rivelatori di un complesso di inferiorità nei confronti delle ‘scienze dure’, che induce a scimmiottarle”. A fronte dell’inconcludenza delle progettazioni che di continuo vengono formulate, di maggiore interesse sarebbe, invece, la riflessione sull’approccio politico da riservare alla soluzione del problema della “grande suburbanizzazione”, che sta investendo il mondo intero; un approccio, cioè, che sia meno interessato alle definizioni formali e alle soluzioni tecniche e più alla natura del metodo col quale tentare di definire quale dovrebbe essere la formula di governo più appropriata delle “sconfinate megalopoli in crescita incontrollata”.
Da quest’ultimo punto di vista, almeno con riferimento all’esperienza delle dinamica urbana sperimentata in Italia, si dovrebbe tener conto che nelle megalopoli la distinzione tra centro e periferia tende a svanire, perché, secondo Luca Molinari, docente di architettura contemporanea (“La periferia dopo la periferia”, in “Limes”, n. 4/2016), negli stessi luoghi urbanizzati, negli stessi quartieri e negli stessi caseggiati possono essere vissute entrambe le condizioni, proprie sia del centro che della periferia. La distinzione tra centro e periferia ha perso di significato anche per via delle modalità con cui sinora gli interventi pubblici sono stati effettuati, senza una metodologia che consentisse di rilevare la vera natura del problema da risolvere; è prevalsa una pianificazione dell’attività d’intervento che ha privilegiato talvolta il punto di vista del centro e talaltra quello della periferia, sulla base di una improbabile apertura democratica alle istanze provenienti dagli insediamenti periferici; il risultato, in mancanza di una precisa strategia d’intervento complessiva (olistica) è stato quello di determinare una perdita di identità del centro e la creazione di una moltitudine di insediamenti periferici alla ricerca di un’identità urbana.
Inoltre, il metodo privilegiato, sempre parziale, ha determinato il fallimento dello sforzo di ridurre il fenomeno della suburbanizzazione attraverso le numerose “politiche di welfare, attivate nel secondo dopoguerra da entrambi gli schieramenti ideologici”, con le quali è stato plasmato lo stile di vita urbano degli ultimi decenni. La causa del fallimento è da ricondursi principalmente, oltre che ai limiti del modello d’intervento, alla “crisi gestionale che ha colpito le amministrazioni pubbliche e la quasi impossibilità di elaborare modelli urbani capaci di competere con un idea stratificata di centro storico”; fatti, questi, che hanno decretato l’insuccesso sul piano culturale e su quello politico della strategia adottata.
Ciò che, in particolare, non è stato colto come causa del fenomeno della periferia urbana è stata la sua natura di esito della dinamica casuale e disordinata delle città, senza che si sia tenuto conto del fatto, a parere di Molinari, che i luoghi oggi considerati periferia sono diventati “la città vera, per dimensioni, consumo di suolo e presenza di una popolazione che da almeno tre generazioni ha colonizzato e trasformato questi luoghi dotandoli di storie, toponomastica e centralità”, che spesso si manca di riconoscere. Che fare allora? Come affrontare il fenomeno dello “sprawl”, cioè dell’espansione disordinata dei centri urbani?
Secondo molti urbanisti, l’assenza di una pianificazione strategica che avesse colto tutte le criticità dell’espansione urbana, in termini di un’area tanto vasta da comprendere tutte le localizzazioni insediative gemmate disordinatamente dal centro storico originario, è stata la causa principale del fallimento degli interventi riparatori. Conferire potere e centralità a un governo d’area vasta sulla dinamica del sistema insediativo urbano doveva costituire la condizione essenziale per ridurre gli sprechi e l’inefficacia degli interventi realizzati e la via maestra per acquisire il disegno futuro complessivo che si intendeva assicurare alla città, tenuto conto delle specifiche condizioni che concorrevano a caratterizzarla.
L’ostacolo all’adozione di una visione di area vasta per la soluzioni dei problemi delle conurbazioni è stato il prevalere dell’“egoismo localistico”; per contrastarlo efficacemente occorreva adottare un piano insediativo in grado di recepire le domande emergenti dalle criticità sociali, economiche e ambientali vissute da chi abitava/operava nelle singole aree vaste; in altri termini, doveva trattarsi di un piano insediativo conforme ad una visione condivisa del futuro delle singole città, desiderabile dai residenti. E’ questo un limite che occorrerà superare, se si vuole che, almeno in Italia, il riordino degli enti locali possa consentire ai responsabili del governo delle città di valersi delle capacità collettive dei territori urbani, attraverso il coordinamento dell’azione delle istituzioni, delle imprese e dei cittadini; mentre è destinata a sicuro insuccesso qualsiasi azione attuata senza una visione che integri, in termini unitari, le risposte, sul piano istituzionale, politico, sociale, economico e ambientale, alle domande dei territori investiti dallo sprawl urbano.
Fonte: Il manifesto sardo
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