di Alessandro Dal Lago
Da tempo Ernesto Galli della Loggia promuove sulla prima pagina del Corriere della sera la tesi secondo cui un’imbelle Europa occidentale avrebbe rimosso la guerra, con ciò rivelando di avere rotto con il proprio passato. Ora, questa posizione viene elaborata in un volumetto a quattro voci (Senza la guerra. Moriremo pacifisti?, Il Mulino, pp.125, euro 12). Si tratta di un testo d’occasione, in cui la tesi in questione si specchia nelle riflessioni di Lucio Caracciolo sull’eredità della grande guerra nella geopolitica contemporanea, di Massimo Cacciari sulla scomparsa di Polemos (e sul fallimento dell’utopia della regolazione dei conflitti ) e di Elisabetta Rasy sulla sostituzione della nobiltà della vittima a quella del guerriero nella letteratura del Novecento.
In realtà, con l’eccezione di Caracciolo – che in un certo senso sostiene il contrario di Galli della Loggia, cioè il perdurare degli effetti dei conflitti mondiali e quindi «il passato che non passa» – il libretto ruota intorno all’oblio della guerra e dei guerrieri come aspetto decisivo della coscienza europea.
In realtà, con l’eccezione di Caracciolo – che in un certo senso sostiene il contrario di Galli della Loggia, cioè il perdurare degli effetti dei conflitti mondiali e quindi «il passato che non passa» – il libretto ruota intorno all’oblio della guerra e dei guerrieri come aspetto decisivo della coscienza europea.
Quella di Galli della Loggia non è una posizione isolata nella storiografia contemporanea e trova le sue espressioni più caratteristiche in storici conservatori come l’americano Victor Davis Hanson, che da anni lavora sulla centralità della guerra nell’edificazione della cultura occidentale, o l’inglese Niall Ferguson. In Italia, punti di vista analoghi sono fatti propri da Angelo Panebianco, sodale di Galli della Loggia nella polemica contro il pacifismo, e da diversi altri commentatori . Si direbbe che tutti questi autori e influenti dell’opinione pubblica non sopportino che si parli poco di guerra e soprattutto, come scrive Galli della Loggia, dei suoi effetti positivi: («alleanze e progetti diplomatici, battaglie e piani strategici, costruzione di molteplici e inedite identità, morte e nascita di nuovi Stati, diffusione di nuovi ideali sociali, emergere di nuove tendenze culturali, di nuove abitudini di vita»).
Siamo sempre dalle parti della guerra come levatrice della storia. In realtà, il ruolo dei conflitti mondiali nella trasformazione dell’occidente è esplorato in centinaia di libri. Ma il punto non è questo. Piuttosto: che senso ha la nostalgia di Polemos, per dirla con Cacciari, nel momento in cui l’Europa è attraversata da conflitti di ogni tipo? Subito dopo il referendum inglese sull’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, alcuni organi di stampa hanno persino evocato lo spettro di nuove guerre nel vecchio continente! Le posizioni di Galli della Loggia avrebbero avuto un senso, diciamo, tra gli anni Sessanta e Ottanta, quando sembrava che l’unico conflitto pensabile, almeno in Europa, fosse quello nucleare. Ma oggi? Anche prescindendo dalle guerre dei Balcani e da quelle che covano ai margini dell’occidente (Ucraina), i paesi europei sono impegnati, da almeno venticinque anni, in conflitti a diversa intensità in un gran numero di paesi (Iraq, Siria, Libia, Afghanistan, Africa sub sahariana e così via).
Dunque, la guerra non è scomparsa. O, meglio, è scomparso il modello della guerra generale che, tra il 1914 e il 1945, ha provocato più di cento milioni di morti. Nasce nella consapevolezza di questi stermini (altro che nell’oblio di Polemos!) quella che Galli della Loggia definisce come rimozione della guerra o «pacifismo». In realtà, la guerra continua sotto altre spoglie, su cui, tra l’altro, la letteratura è ormai immensa: impiego soverchiante di tecnologie avveniristiche al posto dei boots on the ground, subappalto degli scontri sul terreno a truppe neo-coloniali e ai contractor e così via. Persino gli Stati Uniti, che non si possono proprio definire imbelli, visto che combattono da un secolo in ogni parte del globo, sono riluttanti a impiegare le truppe sul terreno e ricorrono tutt’al più, oltre ai droni e ai bombardamenti mirati, a truppe speciali e consiglieri militari.
Più che di rimozione della guerra si dovrebbe parlare allora di una trasformazione epocale dei conflitti armati, che oggi sono caratterizzati da grande flessibilità strategica, dalla segretezza degli obiettivi e da una disinformazione che non mira solo a disorientare i nemici, ma anche a tenere al riparo l’opinione pubblica dalla «visione» dei conflitti. E quindi, niente parate, niente dichiarazioni solenni, niente giornalisti liberi di intervistare i soldati (come ancora avveniva ai tempi del Vietnam) e di documentare le perdite dei «nostri» e le stragi degli altri. Tutti si ricorderanno che Bush nel 2003 aveva vietato fotografie e riprese delle bare dei soldati americani.
Al di là dei singoli contributi e della sua natura occasionale, Senza la guerramanca in generale l’obiettivo di fare il punto sullo statuto sociale e culturale dei conflitti armati nel nostro tempo. Più che da un oblio attribuibile a una supposta «coscienza europea» (che, qualunque cosa sia, oggi sembra andare in frantumi grazie ai contraccolpi della globalizzazione), l’invisibilità della guerra discende dalla straordinaria capacità distruttiva delle tecnologie militari moderne. Anche senza il ricorso alle armi nucleari, oggi una guerra europea farebbe impallidire le distruzioni della seconda guerra mondiale. Ecco perché Gilles Deleuze ha potuto parlare, dopo l’apparente declino della guerra, di «una pace ancor più terrificante».
Quanto ad accettare la «prova del fuoco» e cioè ad andare in battaglia, la relativa (e apparente) indisponibilità (di cui parla Cacciari), forse può valere per i conflitti infra-europei – per il motivo detto sopra, e cioè la memoria ancora viva degli stermini novecenteschi. Ma certamente non vale quando si tratta di affrontare iracheni, talebani, siriani e altri alieni, anche se dall’alto dei cieli e non nelle sabbie roventi dei deserti mediorientali Ma di questa storia, e cioè dello squilibrio militare tra occidente e resto del mondo in Senza la guerra non c’è alcuna traccia. L’immanenza della guerra nel mondo d’oggi aspetta ancora il suo Clausewitz.
Fonte: Il manifesto
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