di Andrea Colombo
Mancano solo lo tsunami e l’uragano Katrina. Per il resto la lista di apocalittici sinistri profetizzati dal Centro studi di Confindustria in caso di vittoria del No al referendum è completa. Caos politico, instabilità terremotante, fuggi fuggi di capitali, fiducia e consumi a picco. Trattandosi di un autorevole centro studi, mica fattucchiere, il disastro è calcolato in cifre e percentuali: differenziale sul Pil pari al 4% in meno, sugli investimenti addirittura del 16,8% in meno. Ci sarebbero anche 600mila disoccupati in più, 430mila nuovi poveri e non parliamo del debito pubblico che schizzerebbe dal 131,9% al 144%. Analisti imparziali e obiettivi, i ragazzi di Confindustria.
I capigruppo di Sinistra italiana De Petris e Scotto bollano subito il non disinteressato vaticinio come «terrorismo mediatico», ma segnalano anche che per abbassarsi sino a questo punto i poteri che sostengono Renzi devono essere in preda al panico. Probabilmente è proprio così. La popolarità del premier è al minimo storico. Un sondaggio Demos commissionato da Repubblica prevede la vittoria dell’M5S, se si votasse con l’attuale Italicum, con un distacco di 10 punti. E’ vero che i sondaggi vanno sempre presi con le pinze e che il quotidiano fondato da Scalfari è impegnato in una crociata contro il premio di lista. Ma il segnale resta netto e non equivocabile.
La controprova è negli attacchi concentrici che sono partiti ieri dal centrodestra, nonostante l’apertura tentata da Fedele Confalonieri, e dall’M5S, nonostante la difesa dell’Italicum dovuta a comprensibili interessi di bottega. La replica di Matteo Salvini a Confalonieri è stata durissima: «Leggo di ipotesi di nì al referendum. Patti chiari amicizia lunga: o si viaggia tutti insieme da subito o la Lega va da sola». Già che ci si trova, il leghista mette i puntini sulle i con la dichiarazione meno conciliante che si possa immaginare nei confronti dei moderati di Forza Italia: «Con la Lega al governo l’Italia uscirebbe dall’Euro». Meloni concorda, ma il ruggito è probabilmente inutile. Dentro Fi nessuno sembra attratto dalla sirena del Nazareno evocata da Fidel.
Sul fronte a cinque stelle è Alessandro Di Battista a suonare la stessa musica: «Un ottimo modo per bloccare queste schifezze di riforme costituzionali fatte da Verdini e un Italicum che produrrà un Parlamento di nominati è votare No al referendum». Anche sull’Europa, Di Battista va giù appena meno drastico di Salvini: «Sono convinto che avere una moneta propria e una banca che la possa stampare sia un’arma per fare politiche fiscali, monetarie, valutarie ed economiche. Serve un referendum consultivo». Come dire: fuori dalla Ue no ma dall’Euro…
A rendere questo clima e questi sondaggi particolarmente minacciosi è il fatto che la reazione alla Brexit, che pure ha rappresentato un appiglio per Renzi, sembra aver inciso poco. E se le cose stanno così adesso, quando l’ondata emotiva è ancora alta, ci si può facilmente figurare quale sarà la situazione in autunno.
Renzi, e ancor più di lui Maria Elena Boschi, però non intendono mollare, né sul referendum-ordalia e neppure sull’Italicum. «La legge elettorale non si tocca», ripete il premier. Probabilmente nella direzione di lunedì sarà meno tassativo. Formalmente lascerà aperto qualche spiraglio, ma la sua intenzione è quella di lasciare la legge come è, con il premio alla lista, e di mantenere altissima la posta in gioco nel referendum.
Ma se Renzi e la ministra Boschi vogliono giocarsi tutto in un tiro di dadi, sono in molti nella stessa maggioranza Pd a darsi da fare per preparare in tempo qualche paracadute. Nei corridoi del parlamento, negli ultimi giorni, è tornato di gran moda il toto-premier, quella specie di gioco di società politica consistente nell’ipotizzare chi potrebbe sostituire don Matteo se il referendum lo travolgerà: il solito Amato o il presidente del Senato Grasso, magari Franceschini che si da molto da fare, Enrico Letta nella parte del conte di Montecristo? Solo fantasie per il momento, ma quando nel Palazzo imperversano ipotesi sul prossimo capo del governo di solito significa che il conto alla rovescia è cominciato.
Fonte: Il manifesto
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