di Luca Celada
Come Brexit in Gran Bretagna, l’ascesa fulminea del trumpismo in America rappresenta il compimento di un riallineamento tellurico degli schieramenti nelle democrazie occidentali. La globalizzazione che ha fatto la fortuna delle oligarchie finanziarie e delle emergenti classi consumiste in Asia, ha decimato lavoratori e classi medie in occidente, rottamando con impressionante velocità tradizionali dinamiche ideologiche di classe a favore di politiche identitarie ed emozionali.
NEL GIRO DI 15 ANNI ad esempio la critica no global progressista, ha lasciato il posto al rigurgito xenofobo e nativista di ampi settori sociali esautorati dal sistema dei profitti, che in America come in Europa si sono aggregati attorno a movimenti populisti speculari. Trumpismo, leghismo, putinismo e l’assortimento di nazional-populismi europei hanno sostituito rivendicazioni sociali e ideologiche con un conato nichilista dai riflessi suprematisti e razzisti.
Ad un livello «psichico» profondo, la presenza di un uomo nero alla Casa bianca ha catalizzato antiche fobie, riportando allo scoperto odi occultati dalla patina di correttezza politica (non a caso proprio la lotta alla ‘correttezza’ è stata un cavallo di battaglia preferito del nuovo populismo americano come di quello europeo). Emancipato dalla «schiettezza» del capo, il popolo trumpista ha potuto riprendere la guerra (in)civile senza più preoccuparsi di dissimulare le pulsioni razziste in una dialettica presentabile.
IL TRUMPISMO ha abilmente strumentalizzato il risentimento per la perdita di potere d’acquisto e identità indirizzando le recriminazioni verso spauracchi esterni, oltre frontiera o oltremare. Come il leghismo ha metabolizzato il fallimento della globalizzazione neoliberista attraverso la recrudescenza populista e xenofoba, esattamente come in Europa. Due anni prima delle barricate di Gori i bravi cittadini californiani di Murrieta avevano organizzato posti di blocco e dato fuoco ai copertoni per per fermare i pullman di donne e bambini centroamericani diretti ai centri di accoglienza, col plauso di molti esponenti della destra repubblicana. L’occupazione di un rifugio ornitologcio da parte dei prodi armati del clan Bundy – trumpisti ante litteram – è stata l’equivalente del tanko dei serenissimi a piazza San Marco. Tutto, si capisce, nel nome della difesa della sovranità territoriale contro i «soprusi del governo centrale».
TUTTO CIÒ non si è sviluppato nel vuoto. Da trent’anni la guerra allo stato, per un governo minimo, è stato un caposaldo della retorica repubblicana, la dottrina di una destra in una lunga deriva integralista. L’escalation è iniziata con la campagna «insurrezionalista» di Barry Goldwater nel 1964 e continuata con Nixon, in seguito con le frange evangeliche attivate come forza politica da Reagan, e proseguita ancora con le culture wars di era Bush e neocon.
Un percorso che ha accentuato ad arte paranoia e manie complottiste per accrescere un’utile alienazione. Trump in questo ha avuto molti cattivi maestri, intanto Joe McCarthy, poi Pat Buchanan e Newt Gingrich, antesignano manipolatore quest’ultimo di rabbia populista, architetto della republican revolution del 1994 e fautore della mutazione genetica della politica in lotta senza quartiere.
La storia delle elezioni 2016 riguarda in gran parte come le frange coltivate da quel processo siano sfuggite al controllo del partito per diventare le brigate insorgenti di un leader in grado di esprimere catarticamente il rancore covato ed esacerbato da decenni di promesse non mantenute.
DIETRO LA CATARSI antipolitica di Trump ci sono insomma decenni di strumentale demagogia che da oggi i suoi frutti avvelenati – comprese le relazioni pericolose con neonazisti, suprematisti e alt right che non nascondono il proprio entusiasmo per un paladino così affine alle proprie sensibilità.
Nella strategia della terra bruciata, la revolution di Gingrich ha divorato i propri figli deformi. La sistematica divisione seminata dalle «guerre culturali» (su moralità patriottismo, sesso, religione) hanno coltivato e abilitato pericolosi estremismi, una successione di frange dalla silent majority alla moral majority al tea party, galvanizzate dalle battaglie contro la modernità della società multiculturale americana.
PER ACCATTIVARSI gli integralisti teocon, la destra è giunta a combattere Darwin e l’insegnamento dell’evoluzione e della scienza nelle scuole pubbliche, dando corda all’anti-intellettualismo di cui Trump è il perfetto erede. Il sistematico abbassamento del discorso al minimo comune denominatore, sbandierato come orgoglio anti–elitista, ha rappresentato, come altrove, una rincorsa verso il basso sfociata nella liberatoria retorica del «vaffa» in cui Trump, e tanti attuali populisti, eccellono.
II trumpismo esprime quindi il compimento di un fisiologico mutamento della politica. Parallelamente al declino del giornalismo, la saturazione internet e social ha inaugurato la dialettica post-fatti e post-realtà di cui questa campagna è la didascalica rappresentazione. Non è un caso che la campagna di Trump sia stata pilotata da Stephen Bannon, direttore dei siti Breitbart, i principali aggregatori online della galassia alt-right. Adattando al nuovo discorso reazionario linguaggi e strategie cooptate dalla controcultura e la ferocia senza mediazione del trollismo internet, la nuova destra ha scalzato perfino istituzioni che erano state il fondamento stesso del nuovo movimento conservatore, vedasi la potente Fox News, attaccata da Trump e improvvisamente nel mirino dei nuovi giacobini.
LA CAMPAGNA presidenziale del 2016 ha insomma dato la netta sensazione di una accelerazione della storia. Mentre il progetto europeo si infrange sulla crisi di sovranità e sull’emergenza umanitaria, il trumpismo promette di incrinare, forse irrimediabilmente, il patto sociale americano retto su mobilità sociale e integrazione.
Il fatto che il bianco incazzato sia diventato lo strumento della demagogia populista, infine, non impedisce che sia effettivamente il soggetto politico del momento: orfano politico ed economico di una implacabile logica del profitto che lo relega al precariato. Queste elezioni in definitiva rappresentano il fallimento di quel sistema e quello collettivo di dargli una risposta costruttiva.
Fonte: Il manifesto
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